Città del Messico, 1950. William Lee (D. Craig), alcolista, tossicomane, omosessuale conduce una vita randagia e di eccessi, tra locali in cui bere e avventure sessuali con ragazzi giovani. Quando incontra Eugene Allerton (D. Starkey) nasce un’ossessione amorosa per Lee e un ambiguo rapporto per Allerton, più giovane dell’uomo e forse neanche gay. La loro relazione, se così si può definire, li porterà a viaggiare per il Sudamerica, fino alla giungla profonda, alla ricerca dello Yage, allucinogeno naturale derivato da una pianta.

Luca Guadagnino alla regia e Justin Kuritzkes alla sceneggiatura, portano sullo schermo il romanzo omonimo di William S. Burroughs, pubblicato oltre trent’anni dopo la sua stesura, nel 1985. E’ un film molto fedele al libro, a parte alcune concessioni (poco riuscite) nel finale, partendo da una materia narrativa di per sè scarna e dove non succede molto. Non a caso, il fascino della pellicola risiede nelle estetica: la fotografia, le inquadrature, l’uso delle musiche, la prova superlativa di Craig.

E’ la storia di una solitudine irretita dalla bellezza della gioventù, dove il desiderio si mescola alle allucinazioni prodotte dalle sostanze, l’attrazione si incontra e respinge continuamente, le pulsioni del corpo si confondono con quelle della mente. Discutibile fin che si vuole, a Guadagnino va riconosciuto un talento (ormai innegabile) e uno stile.

Torino, 2025. AngryMadry, né (apertamente) alcolista né tantomeno tossicomane, conduce una vita lavorativamente randagia e ricca di eccessi di caffeina. Quando incontra Zummone davanti al cinema Nazionale, ha il coraggio di esprimere ad alta voce una preoccupazione che, scoprirà in seguito, è condivisa anche dal suo compagno di avventura.

“Non è che poi a forza di aspettare, ‘sto film poi magari ci delude?”

Perché questo film, Zummone ed io, lo aspettiamo da tantissimo tempo. Un’attesa straziante quanto quella di Lee per Allerton al bancone dello Ship Ahoy, dato che in Italia è arrivato nelle sale con mesi di latenza rispetto al resto del mondo, tanto da essere già disponibile in streaming nel Regno Unito. Un’attesa che ha fatto, seppur brevemente, anche vacillare la mia fedeltà amicale, quando ho dovuto resistere alla tentazione di guardarlo in lingua originale ad Amsterdam a inizio Febbraio.

Ma ho resistito, e ne è valsa la pena.

Queer è stato esattamente quanto mi aspettavo, un film in cui il senso di disperata solitudine di Lee, che Craig porta in scena in maniera commovente, si arrampica e avviluppa in maniera contorta su una trama esile e allucinata, che si distacca a brevi tratti dal libro originale con inquietanti rimandi alla tragica fine della moglie dell’autore (uccisa, per errore o forse no, da Burroughs stesso).

Mi ritengo, quindi, sostanzialmente soddisfatta, anche se due questioni mi lasciano perplessa: in primis, l’immotivata assenza nelle sale della versione in lingua originale. Poi, e qui mi rivolgo direttamente a Guadagnino, che sono certa sia avido lettore di collateralmente.it e stia con il fiato sospeso in attesa di questa nostra recensione: con tutto questo mastodontico lavoro di sceneggiatura e fotografia (e un budget che certamente lo avrebbe consentito), perché, PERCHÉ rovinare tutto mettendo in scena due cuori* così anatomicamente inaccurati?

(* intendo proprio l’organo)

CC BY-NC-ND 4.0 Queer [doppia recensione con Elena Maldi] by Collateralmente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.