Ultimamente leggo molti articoli che parlano di quanto il nostro livello di attenzione sia sempre più compromesso dalle continue distrazioni dovute al nostro essere iperconnessi.
Cito La Repubblica: Un recentissimo studio della University of Southern California ha stabilito che viviamo nella “età della interruzione”: siamo perennemente connessi a molteplici apparati, e di fatto la nostra attività prevalente consiste nell’interrompere quello che stavamo facendo per incominciare a fare qualcos’altro, interrompendoci di lì a pochissimo e così via all’infinito. Mi ci ritrovo in pieno. Mi interrompo di continuo, ho almeno 5 finestre sempre aperte sul portatile, controllo notizie, notifiche delle pagine Facebook che amministro, tweet..[per non parlare degli sms, di WhatsApp, delle telefonate]
Non riesco mai ad approfondire ciò che mi servirebbe, e gli articoli salvati su Instapaper a volte languono lì per settimane. Di approfondire ciò che mi piace nemmeno a parlarne.
A conferma di questo ho letto pochi giorni fa che il giornalista Andrew Sullivan, papà del papà di tutti blog [quindi nonno di tutti i blog?..] ha annunciato di voler smettere di scrivere su The Dish per tornare a un modello di scrittura più convenzionale.
Scrive così:
…Viene infatti il momento in cui devi passare a qualcosa di nuovo, cambiare radicalmente il tuo mondo, o riconoscere prima di crollare una volta per tutte che la stanchezza esiste…Voglio tornare a leggere, lentamente, con attenzione. Voglio assorbire un libro difficile e vagare nei miei pensieri per un po’. Voglio avere un’idea e lasciare che assuma forma lentamente, invece di trasformarla istantaneamente su un blog. Voglio scrivere saggi lunghi che possano dare risposte più profonde, più accurate.
Non so se le due cose sono correlate, ma sono d’accordo con lui: nemmeno io credo che il ritmo sincopato che scandisce i tempi dell’informazione di oggi sia la miglior cosa che potesse capitarci; si tratta sovente di un’ informazione spruzzata in giro senza riferimenti certi, senza fonti attendibili; non è nemmeno cotto e mangiato, perché spesso è crudo in alcune parti e bruciacchiato in altre. Lo ingoiamo a forza, come oche da foie gras.
Non si tratta solo di un modello comunicativo: Sullivan manifesta un pensiero personale, dicendo che ogni tanto è bene passare a qualcosa di nuovo; è una cosa molto anglosassone nel modo di intendere la propria vita lavorativa. Anche in questo caso sono d’accordo con lui [sarà che sono nato a Westminster, non so].
Quella di Sullivan è una scelta coraggiosa [The Dish fa un sacco di soldi], e credo andrebbe meditata bene, perché associare la lentezza e il giusto tempo che va dedicato alle cose al male assoluto non ci farà più riconoscere una cazzata da una cosa seria. Ci farà solo dire/scrivere/ascoltare un sacco di cazzate, sempre più in fretta.
Credo abbia fatto benissimo se se lo può permettere. A volte io sento la necessità fisica di staccare il cervello e di rallentare se sono convinto che se potessimo seguire il ritmo naturale le nostre vite guadagnerebbero in qualità. Paradossalmente la tecnologia ci permette di dialogare con qualcuno che è distante migliaia di chilometri il che però magari ci distrae e non ci fa dialogare con chi è seduto a fianco a noi al tavolino del bar…
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