Saul è un ebreo ungherese internato ad Auschwitz, nel 1944. E’ uno degli addetti del Sonderkommando, la squadra che si occupava di uno dei forni crematori, che trascinava corpi senza vita dopo le camere a gas, che bruciava i “pezzi” ormai senza vita; non pensa più, non parla quasi più, come tutti gli altri, esegue e basta, anche se si tratta di avere a che fare con i corpi (privi di vita o meno) dei suoi connazionali, nel suo personale inferno in terra. Un giorno, dopo l’ennesimo “carico” di prigionieri liquidati, scorge tra i morti un ragazzo molto giovane. Senza una ragione apparente, Saul si intestardisce a voler seppellire il giovane, sostenendo con tutti che si tratta del figlio. Cerca un rabbino, tra i prigionieri, che possa officiare il rito funebre, come da tradizione ebraica. Si scontra con l’indifferenza e l’ostilità di chi lotta per la sopravvivenza, le derisioni dei tedeschi, l’ignobile crudeltà dei kapò e la loro propensione alla corruzione. Contemporaneamente, la sua vicenda si incrocia con la rivolta degli ebrei del Sonderkommando (episodio avvenuto nell’ottobre 1944).
Con uno stile insolito (formato quasi squadrato in 4:3), il film dell’ungherese Laszlo Nemes (esordiente alla regia!!!), bracca il protagonista (un superbo Geza Rohring) quasi sempre in primo piano, lasciando spesso intuire sullo sfondo, ma fuori fuoco, gli eventi collaterali. Il sangue si intravede, la morte si percepisce come costante atmosfera, il protagonista attraversa la storia in stato quasi di trance, mentre tutti sono vittime e carnefici dell’orgia folla di violenza. Resta da chiedersi: perchè farlo? Perchè voler a tutti i costi, a rischio della vita, dare degna sepoltura a un ragazzo sconosciuto? Perchè nel luogo del Male Assoluto novecentesco subordinare tutto, anche se stessi, a un gesto apparentemente senza senso. Forse perchè è l’unico modo per trovare un senso.
Non per espiazione, nè per altruismo. Ma per pietà.
O per dirla con il magnifico J. M. Coetzee, perchè “si batte per salvare l’onore dei cadaveri perché non c’è nessun altro così stupido per farlo. Ecco cosa sta diventando: stupido e cocciuto nella sua stupidaggine.” Mi è tornato in mente, alla fine del film. In ogni caso, se ne esce senza parole, provati. Non si piange per questo film, l’orrore è troppo e certo disturba, ma senza commuoversi. Forse non ce n’è il tempo.
Discutibile quanto si vuole, come tutti i film sulla Shoah, ma comunque di rara potenza visiva. Da guardare.
Gran premio della Giuria a Cannes 2015, Golden Globe e in lizza per l’Oscar al film straniero.
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