L’altro ieri sul treno sedeva di fronte a me un uomo che guardando fuori dal finestrino tentava distrattamente di inserire una strana chiavetta usb nel suo portatile; ho guardato meglio per capire: era quella delle macchinette del caffè. Gli ho fatto un cenno, lui ha sfilato gli auricolari e mi ha guardato, gli ho detto: “E’ quella del caffè..”. Lui ha guardato la chiavetta, poi me, poi ancora la chiavetta e ha sospirato, sorridendo in modo stanco.
Abbiamo parlato un po’ del più e del meno, soprattutto della stanchezza, dei ritmi, di quelle solite robe che ci si dice in circostanze come questa tra sconosciuti che diventano compagni di viaggio temporanei, occasionali.
Non so nemmeno il suo nome, ma mi ha fatto pensare il grado di consapevolezza che in certi casi si trasforma in solidarietà.
Mentre guardavo dal finestrino le ombre che si allungavano, ho pensato a quanto siamo stanchi e al modo in cui lo siamo: cravatte allentate, bottigliette di plastica mezze piene di un’acqua desolatamente tiepida, auricolari pronti a isolarci [ancora di più], occhi rossi che cercano ostinatamente di capire il significato di quell’ultima mail che ci separa da casa.
Una stagione dopo l’altra, anni che si stratificano uno sull’altro, mail, telefonate, convegni e caffè. Tanto caffè.
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