Nuovo post di Loretta: buona lettura!


Un giorno di maggio del 2002 mi collegai a internet per cercare una frase che avrei voluto tatuarmi. Non ricordo se fosse Google o cos’altro, ma il motore di ricerca mi rimandò a un lungo url, composto dalla frase che cercavo con l’aggiunta di un’estenzione mai vista prima: splinder.com. In meno di un’ora entrai nel mondo privato di decine di utenti.
Me lo ricordo come se fosse oggi, con il mio primo portatile appoggiato alla sedia in ciniglia verde oliva del salotto dei miei genitori, in modo che arrivasse ad agganciarsi al cavo ethernet. Ero ipnotizzata dalle loro parole, dal loro mondo segreto, che si rappresentavano con termini, metafore e sconcerti così simili al mio.
Erano decine e decine di diari segreti, quelli che io da sempre scrivevo su quaderni, Smemo, oppure in lettere chilometriche di due fogli a protocollo ai miei amici.
Poi all’improvviso è sparito tutto, molti anni prima che Splinder chiudesse i battenti cancellando tutti i blog sulla piattaforma: un’infinità di pensieri personali, intimissimi, svaniti nel nulla. Tranne i miei, che ho salvato con cura.
Ogni tanto penso che la colpa sia stata di Myspace, che ha trasformato il regno privato di internet, utilizzato per parlare di sé senza che chi ti conoscesse nella vita reale potesse sapere che eri tu, in una vetrina, molti anni prima di Instagram.
Io arrivavo da un’adolescenza piena di amici di penna, poi di amici in chat quando le chat erano una cosa sana. Internet ha riempito il mio mondo quando non sapevo chi ero, era lo strumento che mi consentiva di darmi una voce senza che le persone vedessero che avevo un corpo femminile in cui non mi riconoscevo, di cui non sapevo che farmene.
Di quei blog e del mio blog ne ho sofferto la mancanza, spesso senza consapevolezza, ma ricordo anni in cui non trovavo più uno spazio per concedere i miei pensieri a chi sentiva il mio stesso smarrimento, perché i blog veri, quelli che ricordavo io, erano spariti. Ne erano rimasti, sì, ma si stavano tramutando in pagine personali, in ostentazioni del proprio ego, della propria cultura, della propria capacità di analisi e critica di un libro, di un film o di altro. Io percepivo sempre di più la presa di distanza da se stessi.
Nessuno parlava più di sé ma solo delle cose che faceva.
Ricordo di essere andata alla ricerca disperata di quei blog quando a 41 anni ho compreso di essere una persona non binaria, asessuale e aromantica. Tre malloppi in una volta.
Avevo bisogno di confrontarmi con qualcuno, ma tutto quello che trovavo erano definizioni più o meno scientifiche della mia condizione. Mi sentivo come la Kaiser Wilhelm Gedächtniskirche di Berlino, quella chiesa che viene chiamata “dente cariato” perché le hanno lasciato il buco del bombardamento, solo che tutti ci passano di fianco e dicono che non sia mai stata ristrutturata per mantenere l’evidenza della memoria storica.
Me ne andavo in giro come se mi avessero bombardata, lasciandomi lì da sola senza avere modo di riparare a quel buco, di capirne l’origine, il senso.
Ma non mi sentivo una memoria storica, mi sentivo sola.
Mi sono iscritta a un gruppo di non binary su facebook e in meno di due settimane ho trovato solo aggressività, persone che non aspettano altro che sbagli una parola per non considerarti sufficientemente non binaria come loro, che ti discriminano imputandoti la colpa di chi discrimina loro. Ma dove sono finita?, mi chiedevo, e adesso io con chi ne parlo? I miei amici sono tutti binari, non possono capire che cosa mi sta succedendo, non è sufficiente che mi si dica: sentiti libera di essere ciò che vuoi, senza sessualità, viviti la forma di amore in cui credi, anche se non c’entra nulla con la versione romantica universalmente riconosciuta. Non avevo bisogno di questo, ma di qualcuno che mi raccontasse la sua storia, che non mi recitasse lo slogan di cosa voglia dire essere non binario, che al di là della sua scelta di espressione di genere o di pronomi mi raccontasse chi era prima di scoprirlo, di come abbia vissuto tutti quegli anni senza saperlo; di come vive adesso, senza cliché da persona non binaria, o asessuale, o aromantica o qualsiasi cosa d’altro. Ma non ce n’era modo. Aprivo i social e c’era – c’è – una distesa di account di attivisti certificati o di attivisti wannabe, gente che acquista follower e spunte blu – il senso di questa fama fasulla e dell’autoconvincersi di possederla non la comprenderò mai. Tutti recitavano gli stessi slogan e se provavi a fare una domanda personale ti si rivoltavano con aggressività o deridendoti, perché eri lo stupido che non sarà mai in grado di comprendere perché hai la discriminazione nel dna, oppure rispondevano con altri slogan, sempre più lontani dalla propria esperienza emotiva e personale, sempre più lontani dagli altri. Dicevano tutti le stesse cose, con un atteggiamento da cattedrati della materia, come quello di un gelido psichiatra che scrive l’elenco dei tuoi sintomi nel momento in cui cerchi di tradurre con disperazione in parole l’abisso che senti. Ma la cosa atroce è che lo facevano con loro stessi, traducevano in diagnosi il loro vissuto, certificavano la loro sofferenza, la isolavano in una definizione riconosciuta. In modo da non soffrire più, mi dico, è sempre lo stesso vizio di rimuovere il dolore, a meno che non debba essere usato come mezzo per affermare la propria forza dopo averlo sconfitto.

Ho abbandonato i social allora, prima di riaprirli per la pubblicazione del romanzo. Non è un caso che io abbia ambientato la storia in tempi in cui i social non esistevano. Mi faceva paura il distacco emotivo di chi assumeva il linguaggio slogan per prendere distanza dalla propria vita intima, dando agli altri la responsabilità di capirli e accettarli. Non vedevo possibilità di comprensione, figuriamoci di accettazione. Non capivo nemmeno perché fosse più importante essere accettati dagli altri piuttosto di scavare nel proprio vissuto, cercare se stessi nei propri smarrimenti, dare una vita a quell’incertezza.
Ho sempre pensato che la condivisione emotiva, intima, esperienziale, sia il mezzo più potente per unire le persone, per permettere a chi ci ascolta di comprenderci e condividere a sua volta il proprio vissuto. E invece oggi la gente si accontenta della tolleranza, scambiandola per accettazione. Si convince che chi ti tollera o finge di farlo, di chi pensa, ovviamente senza dirtelo: “Oramai ci siete pure voi, siete in tanti e ci tocca tenervi” significhi aver ottenuto la legittimità del proprio stare al mondo. Si parla di se stessi in termini generici: ogni gruppo, ogni minoranza, parla della propria differenza traducendola in modo identico a quella di tutti gli altri membri che se la portano dietro. Mi fa rabbia, anche se penso che le persone hanno lo stesso bisogno di appartenenza che avevano da adolescenti, che in fondo tutti conserviamo quel bisogno. Ma non riesco a confrontarmi con persone arroccate alle definizioni, che recitano a macchinetta frasi come quelle delle parole che creano la realtà, che è verissimo, ma senza porsi il dubbio che forse le definizioni vanno interpretate come dei segnali che poi ti lasci alle spalle, cercando dentro di te non un’altra definizione, ma la declinazione di quello che vorresti vivere.

Quando è uscito il romanzo non lo sapevo che cosa aspettarmi. Credevo che non sarebbe stato compreso, che le parti sulla malattia erano troppo fitte e inaccessibili.
Poi è successa una cosa: le persone lo hanno letto come se fosse un romanzo che non parlava di depressione o scoperta della propria neutralità di genere, ma come se fosse un post di Splinder. Non avevano bisogno di essere stati depressi o non binari per ascoltare, cercare di comprendere, per riflettere il loro vissuto dentro quella storia. Quando mi hanno scritto o sono venuti a parlarmi dopo le presentazioni, nessuno di loro mi ha detto di aver condiviso la mia esperienza, ma mi hanno raccontato le similitudini della fatica di scoprire chi si è, sommersi in un modo che classifica ogni cosa, senza permettere a nessuno di scalfire la fortezza di quelle parole che hanno creato la realtà.
È questo che cercavo più di vent’anni fa su quel mio blog e sui blog degli altri: il riscoprirmi simile a chi era diverso da me, tuffarmi nella loro differenza per poter comprendere la mia.
Comprendere che ci si perde sempre dentro noi stessi ma che poi ognuno di noi, se sceglie di cercare davvero se stesso, si ritrova sempre lì.

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