Mercoledì 21 maggio (2025) è uscito in anteprima nazionale l’ultimo film diretto da Mario Martone, intitolato “Fuori”. Centottanta sale cinematografiche si sono collegate in diretta con il teatro Ariston di Sanremo, all’interno del quale, dopo la proiezione del film, erano presenti il regista e due delle tre attrici protagoniste – Valeria Golino e Matilda De Angelis (mentre la terza attrice – Elodie – era a sua volta collegata da Milano) – nonché Ippolita Di Majo – autrice del soggetto e co-sceneggiatrice. L’anteprima ha un aroma novecentesco, di un tempo in cui il fluire delle immagini e degli eventi non era incessante e ininterrotto come nel terzo millennio. Le anteprime sono sempre popolate dagli inquieti, dai puer eternus logorati dall’impazienza, da quelli che in una gara dei cento metri anticiperebbero la loro partenza prima dello sparo. Rientrando in questa muta di eiaculatori precoci della fruizione del bello, mi sono precipitato al Supercinema di Santarcangelo di Romagna, paese dell’entroterra riminese, diventato famoso per avere dato i natali a molti dei poeti dialettali romagnoli (da Tonino Guerra a Raffaello Baldini) nonché per il Festival del Teatro, la cui prima edizione ha avuto luogo nell’estate del 1971.

Questa la cornice, dentro la quale ho potuto assistere al film che mi intrigava per una triplice ragione. La prima, perché trattasi dell’ultima fatica cinematografica del regista Mario Martone, al quale sono legato da un amore viscerale, sgorgante dall’innamoramento a prima vista della sua prima opera: Morte di un matematico napoletano, del lontano 1992, narrante la vicenda umana di Renato Caccioppoli, docente di matematica pura all’Università di Napoli, nipote per parte di madre di Michail Bakunin, filosofo e rivoluzionario russo, vissuto nel cuore del diciannovesimo secolo, interpretato magistralmente e sovrumanamente da Carlo Cecchi. La seconda ragione, perché narrante una parte della vita di Goliarda Sapienza, scrittrice e attrice, il cui romanzo più famoso è L’arte della gioia. La vita di Goliarda, figlia della sindacalista Maria Giudice, è stata tormentata e intensa, attraversata dall’esperienza del carcere. E il carcere, appunto, è la terza ragione di fascinazione per questo film, in quanto gli ultimi tre lustri della mia vita li ho trascorsi frequentandolo con assiduità, fortunatamente non da detenuto ma da volontario – dante vita ad “ambulatori di poesia” al suo interno.

Il magister recensionis rimane l’insuperabile Andrea Zummo, al quale affido il commento forbito e puntuale di quest’opera cinematografica. Io mi abbandono semplicemente alle emozioni che mi hanno attraversato durante la proiezione. La prima fascinazione è lo sguardo di Mario Martone su Roma, dopo avere raccontato Napoli in molte delle sue pellicole. Un napoletano a Roma si sente sempre ospite, perché Napoli è città materna che non tollera adozioni per i suoi figli naturali. E paradossalmente Roma rappresenta già il Nord per un napoletano: ogni volta che ‘sale’ di latitudine si porta dietro i cromosomi totòpeppineschi di malafemminica memoria. Martone con colbacco e spaghetti di scorta a inquadrare – non il fasto dell’Urbe ma il nefasto delle periferie -, luoghi di smarginamento dell’umano a causa del degrado architettonico e spaziale. La pariolina Goliarda, alla quale si adatta perfettamente nomen omen (nome presagio e destino: infatti goliardo è persona libera da pregiudizi e morali), è attratta da tutto ciò che è sovvertimento delle regole, delle convenzioni, dei ruoli. E Martone indugia nel mostrare lo scarto tra il vortice culturale e creativo di Goliarda con la passione per uomini e soprattutto per donne pregne della disperata vitalità pasoliniana.

Il film interseca il ‘dentro’ del carcere – nel quale Goliarda è finita per un furto di gioielli a casa di un’amica – con il ‘fuori’ della vita che pulsa vita ma ahimé anche morte. Valeria Golino è una superlativa Goliarda, magnifica nel mostrare lo splendore del decadimento del corpo, dell’assenza di vergogna della propria nudità – fisica e mentale -, nell’amare soprattutto donne, purché non sottomesse a cliché borghesi. Matilda De Angelis interpreta Roberta ed Elodie – Barbara -, due donne che s’imbattono entrambe nella carcerazione. Ne sgorga un triangolo di sorellanza, di erotismo trattenuto, di interscambievole maternità, di pullulante euforia, di solidarietà estrema come solo il femminile sa intercettare e concedere. Il film è ambientato negli anni ’80 del secolo scorso. È una Roma estiva, di quando le città in estate si spopolavano ancora, lasciando quelle strade assolate e deserte nel rutilante silenzio della luce meridiana, che illumina i volti facendoli splendere nella loro magnificente decadenza. Sono gli anni della devastazione eroinica delle vite, degli eccessi di vitalità annichiliti da aghi nelle vene come frecce avvelenate scagliate nella notte dell’umanità. Martone riesce a catturare il sacro; a raccontare (passione esordiale fin dal suo ‘matematico napoletano’) – attraverso Goliarda e le sue amiche detenute e liberate – come l’incomunicabilità sia l’unica vera e grande forma di comunicazione dell’uomo contemporaneo.

A Martone interessa ciò che non consegue a un’azione, il corto circuito del nesso logico, l’incongruenza, l’inutilità dell’agire, l’impossibilità dell’amore a corrispondere amore. Le tre amiche evocano le tre Parche, le Moire greche, che filano vita, destino e morte. Non a caso nella mitologia vivevano nel regno dei morti, assimilabile alle odierne carceri. Ma tutte e tre secernono, ciascuna a proprio modo, una devastante devozione per la vita e per i legami che essa consente. Goliarda potrebbe essere anagraficamente madre delle sue amiche ma il talento della scrittrice le fornisce gli strumenti per scollinare i confini generazionali e creare empatia amorosa – che rifiuta di ridursi a mera premura materna. È una meravigliosa storia declinata al femminile e alla sua potenza di riscatto e di vocazione alla relazione; un inno alla resistenza contro le soverchierie patriarcali che affliggono le donne da troppo tempo ormai. Ma il film non è un manifesto ma un semplice manifestare una supremazia femminile riguardo all’idea di sorellanza, molto diversa da quella maschile di fratellanza. Le donne non conoscono solo la conflittualità cainoabelica ma tutta la potenza del coro, che a volte le trasforma in Baccanti affamate di vendetta ma perlopiù in anime e corpi anelanti l’armonia e la sinfonia di voci.

Mi rendo perfettamente conto di aver parlato più delle suggestioni suscitate che delle scene fluenti sullo schermo. E forse – la ragione principale di questa esperienza – non era tanto di commentare il film quanto di esprimere una dichiarazione d’amore al cinema – visto e vissuto al cinema -, cioè, dentro alle sale cinematografiche. Perché è un gesto che cura – quello di uscire per incamminarsi verso una sala di proiezione, pagare un biglietto, cercare un posto nella fila che meglio consente la nostra visione dello schermo; sopportare quel borbottìo sommesso di chi commenta il film senza preoccuparsi di infastidire il vicino; la paura che la vescica non consenta di terminare la proiezione; fruire di un audio troppo alto o troppo basso a seconda di chi ha fatto partire le immagini; l’idea di partecipare a una comunità silente e contemplante uno schermo animato da immagini che scorrono veloci.

Mi congedo con un invito rafforzato, come il doppio impasto della pizza: non solo quello di andare a vedere questa piccola perla cinematografica ma di non perdere – soprattutto – la voglia di recarsi al cinema, questo luogo partorito dal ventre del ‘900 e destinato – ahimé – a un lento e agonizzante abbandono. Fuori, quindi, non è solo il titolo del film ma avverbio e preposizione costituente un invito, un imperativo: fuori dalle case la sera, per tornare a frequentare la grande famiglia che vuole continuare a sognare attraverso il nutrimento di immagini che grondano – come per magia – dal buio di una sala.

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