Sulle montagne trentine, nel villaggio di Vermiglio, durante la seconda guerra mondiale, vive la famiglia Graziadei. Il capofamiglia Cesare (T. Ragno) è il maestro della scuola e ha una moglie con cui ha messo al mondo una decina di figli, non tutti sopravvissuti, alcuni dei quali suoi stessi allievi. E’ un uomo austero, taciturno, innamorato della musica classica, che spesso si ritira nel suo studio per ascoltare e fumare in solitudine. L’arrivo del soldato siciliano Pietro sconvolge le dinamiche famigliari, al punto che una delle figlie più grandi sarà attratta dal giovane forestiero, innamorandosene.
Gruppo di famiglia in un interno di montagna (e spesso innevato), “Vermiglio” è il secondo lungometraggio di Maura Delpero, classe 1975, che l’ha anche sceneggiato. E’ un film di ieratica bellezza, dal passo lento, in cui la cornice naturale è splendida, anche grazie a una bellissima fotografia. Racconta un tempo lontano, quello dei padri anaffettivi e delle famiglie proletarie coi figli a dormire nella stessa stanza condividendo pochi letti, di un’Italia rurale, arcaica, povera e molto cattolica, ma anche di sentimenti universali e temi attuali: l’attrazione che cova fortemente in silenzio e nell’ombra, la fragilità e la tenerezza, l’emancipazione femminile che è motore di tante scelte. Le donne hanno il ruolo preminente della vicenda, nonostante il personaggio di Cesare, interpretato mirabilmente da Tommaso Ragno.
Parlato quasi esclusivamente in dialetto (e sottotitolato), con echi non troppo lontani al cinema di Ermanno Olmi e Giorgio Diritti. Leone d’argento – Gran Premio della Giuria, all’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia.
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