Ho sempre creduto nel dubbio, inteso come categoria filosofica. Ho le mie idee, compresa quella di pensare all’ateismo come a una forma continua, sofferta e faticosa di ricerca.

Ciò nonostante credo nella libertà di culto e quello che in questi giorni sta avvenendo dopo la strage di Parigi è la solita, trita liturgia polarizzata e polarizzante: chi inneggia alle parole della Fallaci, chi si improvvisa stratega militare, chi vuole le crociate 2.0, chi pur di dire qualcosa per sentirsi meno solo in questo tetro momento se la prende con le religioni tout court.

Come se quello che è successo fosse realmente un atto collegato o collegabile alla religione.

Come se la religione, come se Allah, come se Gesù o Buddha avessero realmente qualcosa a che fare con tutto questo.

Come se non fossimo tutti ben consci del fatto che la realtà è più complessa, che le ragioni dell’odio affondano le loro marce radici nella Storia rimanda alla narrazione di continue sopraffazioni, violenze, soprusi, conquiste e chi più ne ha più ne metta.

Associare così banalmente la preghiera all’ottusità è pericoloso perché illiberale, e io non ci sto.

Cosa significa ‘Don’t pray. Think’? Credere che la preghiera abbia scatenato la furia omicida dei terroristi a Parigi? Ma se seguissi questo ragionamento dovrei pensare che al ‘Think’ corrispondano ragionevolezza, calma, rigore morale.

Invece il ‘Think’ ha fatto muovere i bombardieri.

Per me è meglio lasciare pregare le persone: riguardo al ‘Think’ penso si possa fare decisamente di meglio.

CC BY-NC-ND 4.0 Parigi e my two cents sul ‘Don’t pray: think’ by Collateralmente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.