Loretta Patrini e il suo nuovo post


Ieri mattina, di fronte ai titoli sull’intervento sulla salute mentale di Fedez al Circolo dei lettori, non ho provato rabbia né fastidio, come spesso mi capita di fronte a certi temi trattati con superficialità, ho provato amarezza. Mi sono sentita in parte ferita.

Non da lui che ha parlato di fronte agli studenti, sciorinando il numero di farmaci presi, la balbuzie come effetto collaterale, l’essersi visto la morte in faccia ed essere diventato cavia da social – con milioni di euro sul conto, grazie tante. Questo per me è soltanto borbottio che mira a scatenare una compassione così facile da essere dimenticata in meno di mezza giornata. Ma non mi aspettavo niente da lui, del resto una persona fagocitata e annullata dal proprio ego non può avere i mezzi per fare autoanalisi.

Ciò che mi ferisce è che la credibilità sia messa nelle mani di persone con tanti followers, perché soltanto loro generano attenzione, non importa che l’influencer X in questione abbia unicamente dato sfoggio di egocentrismo, usando paroloni capaci di scioccare, impietosire e raccogliere un immediato e fugace consenso, sua unica linfa vitale.

Ci sono due aspetti che mi sconvolgono, se passo oltre l’amarezza.

Il primo è che la stampa, l’opinione pubblica, tutti quanti, confondono l’ostentazione delle proprie disgrazie come consapevolezza. C’è un’anestesia generale che ha dissociato l’aspetto emotivo e lo ha sostituito con le performances pubbliche. Oggi i tabù si rompono se una persona – preferibilmente celebre – sale su un palcoscenico a gridare “Al lupo!”, di qualsiasi genere di lupo si tratti. Bastano parole che stimolano la pietà altrui – non ho detto empatia perché questa parola è talmente usata a sproposito che pure Daniel Goleman immagino non se la passi molto bene – per raggiungere la convinzione che un tabù sia stato affrontato, passando dall’essere imprigionato dal silenzio e dalla vergogna all’essere accettato. Peccato che il processo di accettazione sia lungo e tortuoso, ma ci torno dopo.

Il secondo aspetto è che il meccanismo di usare una persona come portavoce, persona che a sua volta ha usato a proprio favore un tabù per avere l’attenzione che brama e senza la quale non saprebbe sopravvivere umilmente a questo mondo, è diventato legittimo.

Tutto questo mi provoca un dolore interiore, e se torno indietro alla persona che ha patito una depressione atroce vent’anni fa, so che quella ragazza non si sentirebbe rappresentata da chi mentre balbetta prende il cellulare per mettersi in mostra e guadagnarci qualcosa, né tantomeno si sentirebbe sollevata dai titoli che proclamano la “salute mentale” – altra definizione discutibile – come tabù abbattuto.

Per ogni tabù oggi funziona così: si utilizza il detto che oramai colpisce generalmente in positivo: “Se a una cosa non dai un nome, significa che non esiste”, che, ahimé, è vero soltanto in base a come poi declini la sua realtà, poiché nominare qualcosa su un palcoscenico è sufficiente soltanto a immettere nel mondo un nuovo termine.

Viene poi eliminato il processo, si passa dall’invisibilità all’accettazione come se niente fosse. Ma l’accettazione non è l’essere sotto i riflettori e nemmeno la tolleranza che tutti sovrappongono ad essa come fossero sinonimi.

L’accettazione deve passare prima dal processo personale e doloroso di riconoscimento di chi lo vive e patisce, per essere poi accolto dentro se stessi, prima di poter essere trasmesso ad altri, sperando che quantomento possano comprenderlo.

Quello che Fedez ha fatto è uno show del dolore, perché essendo furbo ha capito che la salute mentale va di moda, che se dici in pubblico di aver avuto problemi con la depressione le persone ti identificano come l’eroe che ha il coraggio di ammetterlo. Ma ammettere non significa averlo superato, non significa aver affrontato il processo. Ed è qui, quando non c’è analisi, che entra in gioco la strategia del vittimismo, ovvero lo strumento più vile e patetico, ma così sottile e subdolo da essersi insinuato nelle coscienze di tutti.

Peccato che il vittimismo non serva a nient’altro che a suscitare benevolenza, spesso pure finta, che non produce riflessione, figuriamoci il superamento di certi tabù. Genera soltanto delle pacche sulle spalle di conforto temporaneo e altra solitudine abissale di chi si vede riconosciuta pubblicamente una malattia ma non ha nessun mezzo emotivo per affrontarla, con un mondo esterno che sminuisce quello che stai patendo “perché oramai è accettato, perché mai tu dovresti continuare a patirlo come quando non se ne parlava?”

Significa uscire dalla porta per rientrare dalla finestra.

Sentirlo proclamare di aver fatto i conti con la propria morte non ha suscitato nessuna compassione in me, perché conosco la differenza tra il lagnarsi di un certo dolore e il restare in silenzio, lasciando che ti travolga senza resistergli. Ma anche questo non è concepibile, perché l’attitudine attuale è quella del superuomo che tratta il suo corpo come subalterno, lo relega al sostantivo tedesco “Körper”, il corpo fisico, organico, che deve funzionare ed essere a nostra disposizione, e quando si ammala va proclamata guerra alla disgrazia di turno, per poi sconfiggerla e tornare vincitori con il nostro “Körper” di nuovo abile.

Questo per me significa sprecare un’occasione di insegnamento, sprecare la vita.

I tedeschi, a differenza nostra, hanno un altro sostantivo per indicare il corpo: “Leib”, ovvero il corpo che sente e patisce, il corpo vivo. Se ci si accorge che esiste e non è separato da noi, allora sì che si può scendere nella profondità del proprio abisso, andare ad abitarlo non come se fosse un nemico ma un alleato che ti mostra che la vita può essere luce proprio perché esistono il buio e le ombre, comprendendo che ogni dicotomia usata per semplificare tutto non funziona più. È soltanto in quella regione gelida di noi stessi, in cui siamo soli e lontani da chiunque, che possiamo accogliere la nostra intimità e rifiutare l’idea che ogni cosa che ci fa male sia un nemico.

Se riemergi da lì senza l’idea di aver sconfitto niente ma piuttosto di aver conquistato una parte di te – conquistato, non eliminato – comprendi che la consapevolezza è più potente di ogni vittoria sui mostri che ci abitano. E che sarà un processo infinito, rivelatorio, sorprendente e sempre stimolante.

Forse proprio ora che mi accingo a concludere questo post mi accorgo di cosa mi suonava cacofonico nei titoli di giornali e in quel nulla cosmico di discorso. Riflettendoci è semplicissimo: è la scelta di come decliniamo quello che affrontiamo, perché una persona che ha affrontato se stessa non riemerge dall’abisso dicendo che ha fatto i conti con la propria morte, ma che ha fatto i conti con la propria vita.

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