Ci ho messo un po’ di tempo, ma l’ho finito: ieri sera sono arrivato alla parola fine della corposissima [a dir poco: su carta sono tre tomi] raccolta di racconti di Anton Cechov.

Ho sempre amato tantissimo i classici russi, capaci di trasferire al lettore una serie di immagini, di sensazioni, di sfumature. Cechov nei suoi racconti descrive la vita amara, sofferente, faticosissima della provincia russa popolata da contadini abbrutiti, da briganti, da amministratori corrotti. In quella Russia la speranza è passata come un treno che non fa soste: fugace, veloce, come un miraggio che svanisce in fretta.

La meraviglia delle descrizioni paesaggistiche [mirabile il racconto sulla steppa] contribuisce a fare da cornice a storie prive di importanza, comuni se non banali: ne esce il ritratto iper realista di una società in cui ogni cambiamento è peggiorativo, in cui le vite si trascinano come in una palude crepuscolare.

Non è semplice da leggere, ma Cechov è un narratore eccezionale, quel tipo di scrittore che ti prende per mano e pare dire: “Vieni a dare un’occhiata: non ti piacerà quello che dico ma è bene tu sappia”.

Disse Cechov: “Nostro nonno era stato picchiato dai signori, e l’ultimo dei funzionari poteva fare lo stesso. Nostro padre è stato picchiato da nostro nonno, noi da nostro padre. Che animo, che sangue abbiamo ereditato? Il dispotismo e la menzogna hanno guastato a tal punto la nostra infanzia che non posso ripensarvi senza terrore e disgusto”

La miseria, la violenza, la prostrazione fisica e l’ignoranza avrebbero potuto piegare Cechov fino a ridurlo come gli altri: non è stato così.

Io ve li consiglio questi racconti, perché se è vero che pittura e scrittura sono espressioni diverse è anche vero che con Cechov avrete l’occasione di poter leggere tanti piccoli quadri.

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