Pubblichiamo la bellissima riflessione di Fabio Cantelli, che ringraziamo per la disponibilità, in ricordo di David Bowie, con il commento si una sua lettrice e la sua ulteriore risposta.

Grazie. Sempre.


Lettera a David

Sono 2190 giorni che non ci sei più.

Sono 2190 giorni che non ci sei più.

La ricordo bene, quella fredda, grigia mattina di gennaio: saputa la notizia alla radio uscii per andare in ufficio e camminando nella nebbia mi ritrovai come smarrito in un vuoto emotivo. Sconcertato: pensavo che sarebbe stato un dramma, una perdita insopportabile e invece ero impassibile, padrone di me. All’improvviso capii: non potevo perderti perché tu mi eri entrato dentro, un giorno del 1977, come un virus, come l’Hiv con cui convivo ormai da 37 anni. Ti avrei perso dunque solo il giorno in cui sarei morto anch’io, ma proprio allora sarei volato da te “like a bluebird”, come canti in “Lazarus”. Sai, David, che tra noi ci fosse un rapporto non intimo ma simbiotico l’avevo sempre sospettato, ma la prova arrivò circa una settimana dopo la tua morte. Convinto da un’amica a partecipare alla commemorazione che i tuoi ammiratori milanesi avevano organizzato – ce ne furono centinaia in tutto il mondo – andai a Milano e raggiunsi il luogo del raduno, le “colonne” di San Lorenzo, luogo a me molto famigliare perché da ragazzo abitavo a poche centinaia di metri da lì, in via Molino delle Armi. Era molto bella quella folla di persone tutte vestite con cura, per l’occasione, acconciate, truccate, molte con un cimelio o un talismano: una foto, un disco, una t-shirt… Altarini sparsi dovunque e musiche trasmesse da diversi punti, accompagnate da silenzi commossi o da cori sommessi. Una bella, pagana, cerimonia funebre, e tuttavia presto compresi che non era quello, il mio posto, che il mio lutto dovevo viverlo per conto mio, in solitudine, perché solo così avrei potuto parlare ancora con te, proseguire quel dialogo che, infatti, è più intenso che mai.

Voglio però raccontare, anche a beneficio degli amici che leggeranno questa lettera e che forse non ne possono più di sentirmi parlare di te, di quanto sei stato non solo importante ma determinante nella mia vita, voglio raccontare i due momenti in cui ho contratto il tuo virus, la malattia Bowie. Entrambi risalgono al 1977. Avevo quindici anni quando, un sabato pomeriggio, entro con la mia “compagnia” di amici al cinema “Argentina” di Milano, in uno slargo a metà di corso Buenos Aires. Quel cinema che ospitava di norma rassegne d’autore proiettava quel giorno “L’uomo che cadde sulla terra”, film che gli amici avevano scelto ignari della passione segreta che nutrivo nei tuoi confronti, segreta perché ti consideravano un personaggio ambiguo e un cantante discutibile, passione nata il giorno in cui, tra i tredici e i quattordici anni, mi ero incantato di fronte alla copertina del vinile di “Aladdin sane” appoggiata sulla scrivania di mia sorella. Ebbene entriamo al cinema e quando ne usciamo la compagnia si ferma nell’atrio a commentare quel film che è riduttivo definire di fantascienza. Io no. Io esco dal cinema e comincio a camminare, immerso nella folla che ogni sabato pomeriggio si riversa in corso Buenos Aires a fare compere e guardare vetrine. La folla c’è ma è come se non esistesse perché io sono altrove, nell’incantamento provocato da un’epifania. Se davanti alla copertina di “Aladdin sane” il fascino ruotava attorno la tua natura sessuale – «è un uomo o una donna?» mi ero chiesto a lungo prima di concludere che non me ne fregava nulla, che volevo diventare come te – in corso Buenos Aires il sortilegio riguardava la tua stessa natura umana, unica e incomparabile. Forse si può essere alieni anche nascendo su questa terra, essere umani e alieni al tempo stesso: questo rimuginava il mio incantamento, quel sabato pomeriggio, incantamento diverso dal precedente perché non era più desiderio di diventare come te ma gioia e, insieme, timore di esserlo già di natura, timore che lo scoprirmi a mia volta alieno – diverso per sostanza e non per posa dai miei amici e coetanei – mi avrebbe condannato alla solitudine e al pubblico ludibrio o peggio, disprezzo. Ma l’effetto del tuo film fu solo l’incubazione della malattia, l’effetto del virus si manifestò poco dopo, sempre in quel fatale 1977. La televisione italiana aveva da poco messo in onda sul secondo canale una trasmissione accattivante e impertinente che si chiamava “Odeon – tutto quanto fa spettacolo”. Io e il mio amico del cuore Guido ne eravamo assidui spettatori, attratti dalla modernità dei servizi e soprattutto dalla cura degli autori d’infilare, nel flusso veloce delle immagini, qualche nudo di donna. Ebbene nell’ottobre di quell’anno – era stato appena pubblicato “Heroes” – viene annunciato un servizio su di te. Il giorno dopo, un mercoledì sera, mi piazzo trepidante davanti alla tv. Sei ripreso all’interno dello studio berlinese dove avevi registrato “Heroes”, proprio a ridosso del Muro, ma non hai più nulla di “Aladdin sane” o dell’alieno umano che mi è apparso nel film. Sembri un giovane uomo come tanti: i capelli corti, un giubbotto di pelle nera, dei jeans aderenti e degli stivali tipo anfibi con una grossa suola. Il solo dettaglio che possa dirsi eccentrico è una calzamaglia del genere usato dai ballerini per scaldare i muscoli che, partendo dalle caviglie, ti fascia le gambe sino al ginocchio.

Ma quella volta l’incanto è ancora maggiore perché quel “costume di scena” normale, quasi dimesso, fa risaltare ancora di più, per contrasto, la tua luce. Fu quel giorno che dall’identificazione passai alla trasfigurazione, quel giorno sei entrato nel mio corpo e nella mia anima per sempre. Andai a letto pensando che qualunque cosa facessi – durante quel servizio rispondevi a delle domande, gesticolavi, facevi due passi nello studio, suonavi qualche nota a un piano – eri di gran lunga la cosa più affascinante che avessi visto nella mia vita, una figura fragile e invulnerabile al tempo stesso, terrestre e aliena, un pezzo unico, insomma, un’opera d’arte. Quello che non sapevo e che avrei scoperto solo molto tempo dopo, attorno ai quarant’anni, è che, se volevo somigliarti, era perché l’esserti il più possibile simile aumentava la probabilità di essere amato. È il bisogno di essere amati la causa profonda delle azioni di noi umani, dalla culla alla tomba: se lo sapessimo saremmo meno orribili, certo meno violenti. Che raccontarti, ancora, che già non sai? Forse di quella volta che ti vidi per la prima volta dal vivo, il 14 aprile 1990 a Milano durante una tappa del “Sound and vision”, il tour dei 20 anni di carriera. Suonasti in un palazzetto dello sport e io seguii tutto il concerto seduto su un gradone, incapace di alzarmi. La gente attorno a me ballava “Golden years” e “Stay” ed io ero come impietrito, una statua di sale. Estraneo a tutto e a tutti, come quel pomeriggio in corso Buenos Aires, con la differenza che tu eri là, adesso, a qualche decina di metri, e io avrei voluto averti solo per me. E ancora un aneddoto, molto più recente, dell’anno scorso, che credo ti divertirà. Entro in un negozio di abbigliamento che ha robe molto carine, al confine tra il maschile e il femminile, con indosso una t-shirt che ti ritrae ai tempi di “Young americans” che mi ha mandato da Vienna una cara amica, Marta, anche lei malata di te. Un giovane commesso mi viene incontro e tutto giulivo esclama, additando la maglietta: «Ah, ma lei è un fan di Bowie!». Lo incenerisco con uno sguardo: «Definirmi un “fan” di Bowie è peggio che insultarmi: David Bowie è il mio alter ego, senza di lui non sarei esistito». Il commesso mi guarda intimidito, dispiaciuto: «Non preoccuparti, non è successo nulla – gli dico accarezzandogli una spalla – sei troppo giovane per capire». Ecco, David, sono 2190 giorni oggi e domani saranno uno di più. Ma per noi conta relativamente, il tempo cronologico, destinati come siamo a ritrovarci come le metà separate dell’androgino nel mito di Platone. Uniti per sempre nella meraviglia della tua musica, nell’enigma dei tuoi occhi, nel perdurare del mio incanto.Ti amo mio altro, mio stesso.ps. Qui sotto il link a quella puntata del 1977 di “Odeon – tutto quanto fa spettacolo” con il servizio “Da Marte a Berlino”https://www.youtube.com/watch?v=vjtF2jku5I0


Il commento al post di Fabio:

Una delle dichiarazioni d’amore più belle che abbia mai letto. Fortunati voi caro Fabio a provare tanto. Aggiungerei che tu sei stato e sei un uomo molto amato anche da noi comuni mortali.

La risposta di Fabio:

È molto bello, *****, il commentare questa mia lettera come se io e David Bowie fossimo stati DAVVERO amanti.

Spero di averlo spiegato cos’è stato, lui per me, dalla prima identificazione all’alba dell’adolescenza alle successive trasfigurazioni/incarnazioni: è stato il veicolo più sicuro per garantirmi l’amore nella forma più complicata, ossia l’essere amati nella propria diversità e anche NONOSTANTE la propria diversità. Quell’amore che nemmeno un genitore è in grado di dare quando vede nel figlio un prolungamento di sé, un “erede”, un prosecutore della “famiglia”. Senza che ne fossi cosciente all’alba dell’adolescenza prese forma in me una riflessione del genere: «Per quanto possa sembrare strano e inquietante uno come David Bowie è così bello e affascinante che non può NON essere amato. Se riesco dunque a somigliargli sarò amato anch’io per quello che sono, nonostante la mia diversità». Per questo mi danno sui nervi i discorsi che usano il termine “narcisismo” quando si parla della sovraesposizione mediatica di quest’epoca, anche nei “social” (dunque, si potrebbe dedurne, anche in questa pagina, sicché non mi sorprenderei se presto un grillo parlante mi accusasse di essere nient’altro che un Narciso dei tanti, magari un po’ più scafato, ma sempre Narciso). Il narcisismo è una cosa seria in quanto rimanda a un mito tragico, perché senza volerlo né saperlo – rimirandosi all’infinito nello stagno dove si specchiava – Narciso muore suicida nell’ambizione folle di bastare a se stesso, di vivere dell’amore di sé, nel rapimento estatico di fronte alla propria immagine (provocando peraltro dolore anche fuori di sé, come nella povera ninfa Eco che, innamoratosi perdutamente di lui, a furia di chiamarlo invano si trasforma in voce che ripete se stessa, all’infinito). Chi imperversa nei media e nei “social” non è un Narciso perché fa l’esatto opposto: vuole attirare l’attenzione nel disperato bisogno di essere riconosciuto. Ma la folla, il “pubblico” non ti riconoscono, tanto più in un’epoca come questa, dove tutti vogliono essere attori e nessuno spettatore: ti riconosce SOLO CHI TI AMA, cioè quattro o cinque persone nel corso di una vita. In questo senso hai ragione a commentare la mia lettera come se io e Bowie fossi stati amanti: la nostra è stata una storia d’amore perché lui mi ha insegnato che per essere amato non bastava somigliargli – ammesso che ci riuscissi – bisognava al contrario mostrarsi come si è e come ero e in parte sono: fragile, indifese, complesso e contraddittorio. L’amore desidera l’autentico e fugge la maschera. David Bowie mi ha insegnato – forse ancora più a fondo di grandi poeti e scrittori – la ricerca dell’altro in sé, dell’altro che siamo. Mi ha insegnato che il riconoscimento degli altri è nulla se non sei in grado prima di riconoscere di te stesso, processo che dura tutta la vita, fino all’ultimo giorno (non è un caso che “Blackstar”, disco che faccio ancora molta fatica ad ascoltare, sia uscito due giorni prima della sua morte). David è stato fino alla fine – e nella consapevolezza della fine – un ricercatore di sé, cioè della vita che incarniamo, come Socrate quando, nel carcere di Atene, in attesa di bere la cicuta chiede a uno dei suoi discepoli affranti di passargli il flauto appoggiato su un ripiano: «Perché, Socrate? Che senso ha suonare in questo momento?». «Per imparare un’altra aria di flauto prima di morire» risponde Socrate. “Blackstar” è stato il meraviglioso canto del CIGNO NERO che è stato David per me e per milioni di altre persone. Ti abbraccio.

CC BY-NC-ND 4.0 Lettera a David [Bowie] by Collateralmente is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.