Che Lars Von Trier fosse un regista/autore geniale, quanto disturbante, anticonformista e insieme a suo modo rigido, spiazzante eppure anche particolare, è evidente da almeno 25 anni. Con il suo ultimo film, “La casa di Jack” ha prodotto l’ennesima pellicola inclassificabile, che ha spaccato la critica e i pareri. La storia è quella del serial killer Jack (Matt Dillon), scandita in cinque capitoli e un epilogo, narrata da lui stesso. La vicenda comincia quasi per caso, ma col passare del tempo, e dei delitti, tutto assume una dimensione sempre più grottesca, oltre che violenta.

La trovata geniale sta nell’aver immaginato un assassino con disturbi ossessivo-compulsivi, immerso nelle sue manie fino al midollo. Quello che non funziona è che Von Trier si prende troppo sul serio, mescola ragionamenti filosofici e citazioni musicali, fa horror nero e umorismo al vetriolo, pulp gratuito che scivola quasi nel b-movie. Il risultato, a mio modesto avvisto, non funziona e il finale è a dir poco allucinante. Complessivamente due ore e mezza spese male, e la versione italiana è stata comunque censurata, nonostante il divieto per i minori di 18 anni. So benissimo che molti non saranno d’accordo con il mio pensiero, che troveranno il film molto riuscito, che riconosceranno il talento del regista e la bravura di Dillon. Può darsi. E a Cannes l’hanno acclamato. A me è sembrato pretenzioso, pieno di sè, a tratti lento e noioso, con finale assurdo. Forse non ero preparato, mi sono perso “Antichrist” e “Nynphomaniac”, ma per me i grandi film di Von Trier sono stati “Dogville”, “Dancer in the dark”, o “Le onde del destino”. Mi dispiace, non questo. E adesso che l’ho detto, posso prendermi gli insulti.

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