Ogni volta che nel corso degli anni ho visto il volto del turismo di massa mi è venuto in mente un pensiero, sempre diverso ma proveniente dalla medesima matrice di repulsione e sconforto; mi rendo lucidamente conto del fatto che un ragionamento come questo può portare a essere preso come uno snob settario, incurante dei benefici che la modernità [ma non era morta, la modernità? Ogni tanto viene fuori e poi scompare di nuovo] ha portato all’essere umano: il mondo che si restringe grazie ai voli low cost, internet, i selfie..

Di questi benefici inizio a dubitare parecchio, soprattutto vedendo come la gente si comporta in alcune occasioni ed in certi luoghi.

Così, leggendo ‘Considera l’aragosta‘ di David Foster Wallace [non me ne voglia Harold Bloom, ma DFW non è ‘garbage’] ho trovato la frase che riassume perfettamente tutti quegli stati d’animo di cui sopra; naturalmente l’autore si riferisca agli Americani, ma è applicabile ad ogni nazione e popolo.

Insomma, è così:

 

Essere turisti di massa, per me, significa diventare puri Americani dell’ultimo tipo: alieni, ignoranti, smaniosi di qualcosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell’incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza di noi. Significa, nelle code e negli ingorghi, transazione dopo transazione, confrontarsi con una dimensione di se stessi che è tanto ineluttabile quanto dolorosa: come turisti, diventiamo economicamente rilevanti ma esistenzialmente deprecabili, insetti su una cosa morta.

 

Turisti
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