Così, se ne è andato.
Ryūichi Sakamoto è stato molte cose per molte, moltissime persone. Me compreso. Ha fuso i generi, guardato oltre, è stato lieve e potente, ha scritto musica che si è sparsa per il mondo come quei venti che arrivano a raffiche, imprevedibili: quei venti capaci di accarezzare un albero e poi di scuoterlo violentemente pochi attimi dopo.
Uno di quegli artisti che nascono una volta al secolo, nel momento giusto però: musica colta, orchestre, musica elettronica, colonne sonore [Brian De Palma ne sa qualcosa].
Io lo voglio ringraziare con queste poche righe, dicendo che sono autenticamente commosso: risuonano nelle cuffie di quando ero un ragazzo le note che mi accompagnavano mentre scrivevo: onde placide e poi impetuose su cui fare scorrere i miei racconti. Ci ho addirittura vinto un premio letterario [piccolo, ma vuoi mettere la soddisfazione di un ragazzino?], anche grazie a lui.
Come mi piacerebbe fosse ancora vivo, vivesse per altri cento anni, ispirare ed essere ispirato.
Com’è crudelmente stupido e spietato il cancro che non guarda in faccia nessuno, che distrugge e muore con l’essere che ha distrutto.
Alcune scomparse mi fanno sperare che ‘dopo’ ci sia davvero qualcosa, qualunque cosa in grado di accogliere uno spirito simile, uno spirito capace di portare la grazia in questo posto brullo e confuso, spazzato da venti che non sono note ma urla a tratti sguaiate, a tratti bisognose, a tratti crudeli.
Se ci fosse un ‘dopo’ le augurerei buon viaggio, Maestro: grazie, ancora, di tutto.
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