Prendo spunto da una domanda che mia figlia ha posto più a sè stessa che a me, osservando lo scorrere delle immagini di un tg: ‘Chissà come si deve vivere in guerra…Mah’

Non lo so per esperienza diretta, quello no, ma so di un uomo che nel ’39 si è trovato, così come milioni di altri, con la guerra su un groppone già appesantito da un lavoro pesante: niente Internet, niente Social. Ho il suo baracchino in cantina, e quando scendo a prendere una bottiglia di vino o per fare la lavatrice lo guardo e me lo immagino vicino a migliaia di altri baracchini nella mensa della grande fabbrica di Torino, quella che faceva auto.

So che aveva due figli piccoli e che la femmina era mia mamma, e non so ma immagino che quando gli aerei sganciavano le bombe poco gli importasse della guerra, della politica, dei motivi. Pensava a portare a casa la ghirba in fretta, e mentre correva sperava [forse pregava] che casa sua fosse ancora in piedi, con dentro sua moglie e i suoi figli, in piedi anche loro.

So che nonostante questo caos che probabilmente capiva con la mente di un uomo semplice e giusto [o semplicemente giusto], trovava il tempo per andare a suonare la batteria in un complesso [non gruppo. Non band. Era il ‘complessino’] formato da due trombe, un piano, un contrabbasso e, appunto, una batteria.

So che una sera suonarono sotto le bombe in un posto in collina, e che a fine concerto mentre due di loro stringevano le mani del prete che aveva promosso il concerto, un altro prendeva in prestito qualche sedia di legno e la passava a quello che aspettava fuori.

Le sedie di legno non servivano per gente in più a cena, e metano e teleriscaldamento non erano parole di uso corrente.

So di questi racconti: è poca cosa, mai vissuta, ma ci va poco a capire che da qualunque punto di osservazione la si guardi, la guerra è questa roba qui.

Bisognerebbe chiedere della guerra a chi ci è rimasto sotto con l’unica qualifica di povero cristo.

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