Della dura vita di un’eporediese in tempo di carnevale.
Ciao.
Sono Barbara, e sono di Ivrea*, quella città che, almeno fino a 30 anni fa, era famosa ANCHE per l’Olivetti e oggi è solo più famosa per una cosa: il carnevale.
Quel periodo dell’anno meglio conosciuto come (in ordine di apparizione):
– “Eh ma le arance non si buttano. Che spreco di cibo!”
– “Eh ma poveri cavalli”
– “Eh ma come siete violenti!”

Non perderò il solito tempo a spiegare da dove arrivano le arance (anzi, no. Una cosa la dico: fino a qualche anno fa, in un paese non molto lontano da Ivrea, per carnevale ci si tirava i tomini. Mai sentito polemiche al riguardo. Sarà forse che hanno smesso di farlo prima che esistessero i famosi leoni da tastiera? Coincidenze? Io non credo), che i cavalli non vengono maltrattati, etc. etc.

Questa volta mi soffermerò sull’ultimo punto.
Le persone.
Questi violenti zotici che si tirano delle terne (terminologia arancistica) per 3 pomeriggi.

C’è molto di più dietro questa “violenza”.
Qualcosa che, a parole, scritte o verbali, difficilmente si riesce a spiegare a pieno.
Posso dire cosa vuol dire per me (e che, spero, valga per la maggior parte di chi vi partecipa).

Carnevale, la battaglia delle arance, è, anzitutto, tradizione.
E passione.
Che si tramanda di padre in figlio. Tra amici.
Che una volta che ne fai parte, non vuoi più lasciarla andare.
È augurarsi “buon carnevale” (anzichè “buon anno”) il 6 di gennaio, quando ci si ritrova in piazza di Città, alle 9 di mattina, per dare inizio alla prima vera giornata, seguendo i pifferi per tutta la città e salutando il nuovo generale, cantando, per la prima volta quell’anno, la canzone del carnevale.
È il piatto di fagioli grassi o il bicchiere di vin brulè (non per me, però, sono una “persona da carnvevale” un pò anomala) che bevi ad ogni evento che ci sarà da quel giorno in poi, che porterà ai giorni clou.
È RIVEDERSI.
Perchè sì. È una passione che, se sei fortunato, nasce quando sei piccolo.

Ma, come nelle migliori favole, poi si cresce, e magari quella cittadina canavesana, per colpa del destino, non è più quella in cui vivi, ti sposti.
Ma per carnevale torni.
E allora ti ritrovi con persone che non vedevi da un anno.
Ma non vedi l’ora che arrivi carnevale per tornare in quella cittadina, per ritrovarti con i tuoi vecchi amici, e passare tre, quattro giorni, o di più (dipende quanto ci metti a riprenderti) con i tuoi VECCHI AMICI.
Sì, a tirare arance.
C’è chi, come antistress, fa sport. Chi fa altro.
Noi ci tiriamo le arance.
E siamo felici.
Come dicevano 3 comici famosi: chiedeteci, durante il carnevale (ma anche in un periodo qualunque dell’anno), cosa si prova a tirare le arance. Cosa si prova durante il carnevale.
Può essere la giornata più brutta. Ma se ci chiedete del carnevale, inizieranno a brillarci gli occhi, e poi inizieremo a sorridere.
Carnevale è profumo di arance spappolate a terra (dopo essersi spappolate addosso a qualche arancere) misto a cacca di cavallo.
È il, o i, lividi che ti porti poi a lavoro, quasi (ma anche senza il “quasi”) fosse un trofeo di “guerra”. Perchè per quel livido hai lottato contro un’altra persona (che, nella maggior parte dei casi, è un tuo amico).
È il panino con la salamella e la salsa che ti mangi tra un tiro e l’altro.
È il sabato sera, passato in qualche, o tutte, le piazze a festeggiare (ndr: bere) coi tuoi AMICI. Che non importa quanto ti tirerai lordo. Tu il giorno dopo sarai in piazza a tirare. E il giorno dopo ancora. Fino al martedì pomeriggio.
È ritrovarsi in piazza di città, il martedì sera, a sentire chi ha vinto. Che poi finirà sempre come nelle peggiori partite di calcio: sarà comunque una vittoria rubata.
È il martedì sera, quando la Mugnaia alzerà quella spada, in direzione scarlo, per le battute finali.
È quella canzone, che hai sentito per giorni, ma che il martedì sera, cantata a cappella, ha un suono dolceamaro.
Perchè vuol dire che, anche per quell’anno, il carnevale è finito.
Ma tanto poi, l’anno dopo, ricomincia tutto. E non vedi l’ora che ricominci.

Carnevale è una cosa che senti dentro. Non si può spiegare.
Si può solo vivere.
E per chi vuole criticare, tranquilli. Dura solo tre giorni.
Ne riparliamo il prossimo anno.

* non sono di Ivrea ma era stilisticamente necessario scrivere così, se no non suonava bene.
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