Le storie divengono fardelli se non vengono raccontate.
“Era un mondo di 86 anni”, così è stato descritto mio padre al suo funerale. Una definizione perfetta che in fondo vale per tutti noi.
Ho scritto qui dentro alcuni post su mia madre, ma su mio padre, sul mio papà, ne scriverò solo uno. È stato un mondo di 86 anni, sì, e anche un uomo che ha messo un passo davanti all’altro lasciando orme a volte profonde. Orme buone, orme meno buone, come tutti.
Dopo che le scorie burocratiche legate a una morte si sono sedimentate, rimane un po’ di tempo per riflettere a caldo su come sia stato essere il figlio di mio padre: poi tutto si trasformerà in ricordo, qualcosa che si diluisce nel tempo come un colorante immerso in un’acqua che continua a essere versata.
Le cose brutte le lascio a me stesso, ma faccio l’esercizio di fissare qui delle sensazioni legate a ricordi felici, più per me che per voi che vorrete leggere queste righe. Per voi naturalmente non possono avere nè sapore nè significato, ma forse possono rendere un’idea dell’unicità di ogni storia umana, dell’universalità diversa e non conforme che ci addolora nel momento in cui perdiamo qualcuno.
Siamo perpetuamente immaturi di fronte a un evento del tutto naturale come la morte.
Così, ricordo.
Ti facevi la barba e mi facevi sedere sulla lavatrice. Mi coprivi le guance con la schiuma Gillette, mettevi la copertura di plastica al rasoio e facevi finta di farmi la barba. Io ridevo, forte. Facevo la barba con il mio papà.
Facevi ringhiare apposta per farmi ridere il nostro primo cane, Slingher, un ‘vecchio pirata’ che stava lontano da casa giorni interi per poi tornate sporco e insanguinato, stanco, fiero delle sue scorribande.
La mia prima bici da cross, verde, sellino lungo e schienale come usava allora: centinaia di chilometri in quel piccolo paesello vicino a Torino. “Fai attenzione a non cadere e sbucciarti” era l’augurio più disatteso. Correvo forte.
I preparativi per le vacanze estive, il momento più bello: il giorno prima della partenza si riempiva la vasca da bagno di acqua e sale per poi immergerci le pinne e le maschere ‘da sub’, in modo che fossero pronte per la pesca ai cannolicchi. Ne prendevi tre o quattro a estate e sembrava avessi cacciato vittoriosamente 10 leoni in un safari africano. L’odore di quella gomma bagnata.
Al mare, in Abruzzo, sempre lo stesso albergo, sempre la stessa compagnia di amici: il profumo dei gamberi arrostiti sulla spiaggia da quel vecchio signore dalla pelle annerita dal sole, la sua faccia rigata dal tempo, dal mare, dalla sabbia. Quel sapore, mai più assaporato. [Non è un rimpianto, è un piccolo tesoro].
Guerre stellari, Maggio 1977: io e te davanti al cinema, in coda, pronti a vedere Il Film. Adesso dicono tutti Star Wars, ma io e te sappiamo che è Guerre Stellari, e che il cattivo non si chiama Vader, ma Fenner [nome che poi abbiamo dato al nostro primo boxer]. Mamma che disse: “Ma sarà adatto? Non è troppo violento?”. È stata la prima di una serie di ‘Giornate pazze’: ti prendevi il pomeriggio libero dal lavoro e andavamo al cinema. Poi, pizza alla Flefrea. Un altro gusto impareggiabile, da custodire [Ho una memoria gustativa incomparabilmente più sviluppata delle altre memorie, purtroppo o per fortuna]
Poi, il Milan, il nostro Milan: la sofferenza a scuola, dove erano tutti Juve o Toro e noi andavamo in B per illecito sportivo, gli sfottò dei compagni di classe che hanno reso ancora più gradevole la rinascita della grande squadra.
“Andiamo a vedere il Milan, papà?”. E si andava a San Siro a vedere Gullit, Van Basten e Rijkaard, ridendo per la genialità di chi [chi? Chi è il genio?] aveva inventato il cappellino con attaccate le treccine rasta di Gullit. Un altro sapore che custodisco: il panino con la salsiccia fuori dallo stadio, con la farina bianca che si attaccava alle dita.
Il calcio, la radiolina alla domenica e quel pallone di gommapiuma che usavamo in camera mia poco prima dell’ora di cena: io in porta [la porta finestra di camera mia] e tu a tirare i rigori. A ogni parata seguiva un ‘Bravo!’ di cui ricordo il suono sincero. Un orgoglio mai più provato.
Ce ne sarebbero molti altri, ma penso di avere reso questa doppia consapevolezza: da una parte scrivere di ricordi e sensazioni che sono fissati nella mia memoria [anima? Chissà], per rendere giustizia a quelli che sono stati momenti felici. Dall’altra, fornire uno spunto a voi che leggete: ognuno di noi, se fortunato, conserva in sé tutti questi frammenti, diversi ma ugualmente intensi.
In questo senso, sono stato molto fortunato a essere tuo figlio.
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