Questa notte ho sognato la buonanima di mio padre; mi capita di ricordare i sogni molto raramente, ma le tracce di questo sogno forse erano un po’ più profonde. Mi parlava di come avesse sempre detto: “Io in pensione non andrò mai: voglio morire lavorando”.

Purtroppo per lui non è andata così, ma non sono certo sia stato un male. Era un uomo di un’altra generazione, un libero professionista che ha sempre rifuggito il lavoro dipendente come la peste, fedele al motto ‘Non padroni ma clienti’. A volte gli è andata bene, altre male: così è la vita e così il lavoro.

Chissà come sarebbe stata l’ultima parte della sua vita se l’avesse pensata diversamente. Se avesse pensato al lavoro come a uno strumento più che a un fine ultimo. Se avesse coltivato degli interessi veri in grado di coinvolgerlo, capaci di attirare la sua attenzione, chissà.

Ultimamente [attacco di boomeraggine o vecchiaia vera e propria?] mi chiedo sempre di più se il lavoro concepito come missione totalizzante sia sensato oppure se questo non sia solo un’occupazione che permette di fare altre cose, le più svariate. Un mezzo e non un fine, ecco. È un atteggiamento mentale più che un modus operandi.

Morire di lavoro [non SUL lavoro, che è una cosa completamente diversa] che senso può dare al proprio passaggio su questa terra? Come può rendere significativa una vita passata all’ombra di un lavoro, per bello e stimolante che sia?

È una domanda aperta, e se vorrete rispondere qui dentro ne saremo tutti contenti perché la nebbia è fitta.

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