Post nuovo nuovo di Loretta Patrini.


Mi ricordo degli anni in cui ho scritto il mio primo romanzo, di che cos’era per me allora la scrittura: una serie di step da affrontare prima di arrivarci sul serio, perché allora non ero in grado, come sosteneva Hemingway, di fare quello che semplicemente andava fatto: “There is nothing to writing. All you do is sit down at a typewriter and bleed“.

Ecco, allora non ero in grado di “sanguinare autonomamente”, avevo bisogno di vari step per togliere ogni sovrastruttura identitaria e ogni difesa emotiva. Portavo fuori il cane, ascoltavo musica elettronica, guardavo serie tv, e alla fine arrivavano le tre di notte e la vulnerabilità totale, attaccabile da ogni parte. In quel modo si “sanguina”, in quello stato emotivo si scrive, altrimenti per quanto mi riguarda è solo esercizio di stile oppure di revisione, quella che puoi fare la mattina dopo aver dormito, con la razionalità riposata, che ti corregge i refusi e le ridondanze.

Ho letto “Talking at night” di Claire Daverley in meno di 48 ore.

Will e Rosie si parlano di sfuggita una notte a un falò, poi si conoscono alle tre di notte nella cucina di lei, mentre lui stava dormendo sul divano del salotto dopo aver aiutato il gemello di Rosie in matematica avanzata. E si telefoneranno, sempre a notte fonda, mentre si conoscono, fino a che il bisogno della notte svanirà senza che se ne accorgano, perché il loro condividersi diventerà una naturalezza priva di tensione e difese, una bolla che non potranno più fingere di non vedere.

Ora non ho più bisogno delle tre di notte per scrivere, o di step per abbandonare il controllo, mi permetto di “sanguinare” se ritengo opportuno scrivere, quella soglia razionale la mando a stendere quando mi pare. Forse è perché si cresce e si comprende che la vulnerabilità non è un nemico ma una risorsa, eppure non sono sicura che sia soltanto questo. Credo che il mantenimento della propria gestione emotiva sia troppo dispendioso, che poi chissenefrega di mantenerlo, dal momento in cui la condivisione emotiva è il mezzo più potente – imbattibile direi – per avvicinarsi a qualcuno.

Da sempre sogno di scrivere una storia su due persone che legano in modo viscerale e inevitabile durante l’adolescenza, scegliendosi non perché sono vicine di banco, di casa o perché condividono gli stessi interessi, ma perché sanno che da quella persona non saranno mai in grado di sfuggire, anche se passeranno la loro vita sfidando l’indissolubilità del loro rapporto, dileguandosi a destra e sinistra, cercando in altri individui di passaggio quello che l’altra persona già possiede, senza trovarlo mai. Perché non è qualcosa che puoi costruire, te lo ritrovi e basta, se hai la fortuna che ti capiti, se hai il coraggio di mantenerlo.

Trovo che i britannici siano bravissimi a raccontare questo genere di storie, ad articolarle senza renderle rapporti come tutti gli altri. Mi viene da citare “One day” di David Nicholls, oppure “Persone normali” di Sally Rooney. Non so pensarle come storie d’amore, è riduttivo relegarle a love stories. C’è molto altro dentro, che se si vuole infiocchettarle come storie romantiche ok, ma osservandole da vicino sono ben di più dell’amore romantico, della fratellanza, dell’amicizia. Che si manifestino poi con relazioni sessuali, fidanzamenti, matrimoni, non cambia la loro costituzione. Sono altro, un “altro” non ripetibile, non sostituibile.

Talking at night” mi ha fatto pensare molto di più a come sia cambiato il mio rapporto con la scrittura, diventato libero da schemi e gestioni emotive, che non al rapporto che ho con Fabio, che in qualche modo racchiude tutte queste storie che ho amato e che vorrei essere in grado di scrivere. E non è che il rapporto con Fabio valga di meno, anzi. Ma, per quanto siano su due piani diversi, solo ora che ne sto scrivendo mi accorgo che un piano non può escludere l’altro, che se Fabio non fosse nella mia vita, se ora non fosse di fronte a me a leggere sulla mia poltrona a dondolo, nella mia vestaglia color petrolio, io non sarei in grado di “sanguinare” scrivendo alle quattro di una domenica pomeriggio.

Non è la destinazione sentimentale o amicale di un rapporto il punto, il punto è che certe persone, se hai la fortuna di trovarle e il coraggio di mantenerle, come dicevo prima, ti riportano sempre in un posto dove non c’è bisogno di controllare o di difendersi da niente.

A casa.

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