L’ho notato per come si muoveva, prima, e per il suo sguardo subito dopo: qualcosa di vivo e allarmato negli occhi che gli conferivano un che di selvaggio, di primitivo. Soprattutto di fuori luogo.
Sono a Porta Nuova, la stazione: sono come sempre in anticipo, vittima di un’ansia per il tempo radicata in qualche elica di dna. Ho più di 20 minuti da trascorrere seduto davanti a un caffè bruciato [il caffè in Italia fa mediamente schifo, prima o poi saremo tutti costretti ad ammetterlo]. Instagram, whatsapp, un giochino, due notizie clickbait buttate lì da Google.
Lo vedo che vaga tra i tavolini, e non è un senzatetto: ben vestito, rasato, pettinato: 65 anni, non di più. Sembra mormorare qualcosa ma non c’è suono e nella caffetteria c’è rumore.
Si avvicina perché ci intercettiamo con lo sguardo. Mollo il telefono, in qualche modo grato per non dover cascare nel clickbait.
“Mi scusi”
“Dica”
“Non so dove sono”
“Si è perso?” chiedo alzandomi.
“Non lo so. Non so dove sono”
Non sa dov’è, non sa chi è: dice solo di chiamarsi Roberto. Lo invito a sedersi, chiedo un bicchiere d’acqua.
“Credo di essere stato qui, per forza: viaggio parecchio”
“Che lavoro fa?”
“Viaggio parecchio”
Gli chiedo se ha dei documenti, che ha. C’è un foglio con alcuni nomi da chiamare ‘in caso di emergenza’. Il Sig. Roberto F. ha una malattia neurologica degenerativa che non è Alzheimer. Chiamo il numero e mi risponde la figlia, spaventata, che mi promette di essere lì in 20 minuti al massimo.
“Vuole che avvisi la polizia ferroviaria, qualcuno? Io avrei un treno da prendere…”
“Le ha parlato?”
“Sì, certo”
“Non lo fa quasi più con nessuno, probabilmente si fida…Cercherò di metterci meno tempo possibile ma per favore stia con lui”
Sto con lui. Cos’altro potrei fare? O meglio, cos’altro vorrei fare?
Ha viaggiato parecchio, mi dice cose, parla di luoghi: Parigi, Napoli, Montecarlo, si sofferma su Lisbona; a Lisbona deve essere successo qualcosa di importante, ma non si ricorda. Riparava meccanismi di precisione: un mestiere morto da qualche parte, in qualche tempo.
“Non riesco a richiamare quel che ho fatto”
La figlia arriva, abbraccia lui, abbraccia me. Roberto sa che è sua figlia solo perché glielo dice lei.
“Non so come ringraziarla”
“È tutto a posto”
“Il suo treno…”
“Treni ce ne sono sempre”
Roberto mi guarda un attimo prima di andare via, lo sguardo che si arrampica su cose friabili.
Sembrerebbe una cosa triste, ma mi ha lasciato qualcosa di buono dentro
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