Felice Lasco (P. Favino) torna a Napoli dopo quarant’anni: lasciò la città giovanissimo, andando a lavorare in Medioriente, dove cambiò vita, aprì un’impresa, si convertì all’Islam e trovò moglie. Ora però vuole fare visita all’anziana madre, che vive in un basso fatiscente, ha problemi di vista e di salute.
Felice si immerge nella Napoli odierna, respira a pieni polmoni l’atmosfera, è progressivamente catturato dai ricordi dell’adolescenza, quando era legato da amicizia fraterna con Oreste (T. Ragno), che ora è diventato un piccolo boss della Camorra nel rione Sanità. Felice stringe legami con altre persone (il parroco Don Luigi e un vecchio amico della madre), si compra una motocicletta usata, è sempre più a suo agio, in quella città che pareva aver dimenticato in tutte le sue forme, a partire dalla lingua, dal dialetto, che piano piano gli torna famigliare e comprensibile.
Passano così i giorni, le settimane, i mesi. Felice vuole incontrare Oreste, anche se tutti lo mettono in guardia dal farlo, ma lui non ha paura, e soprattutto ci sono fantasmi del loro passato comune, che vuole esorcizzare. Il confronto ci sarà, anche se forse non come entrambi si aspettavano. Epilogo (prevedibile?) secco, che lascia l’amaro in bocca.
Mario Martone firma una pellicola ispirata all’omonimo romanzo di Ermanno Rea, dipinge una Napoli obliqua, più lontana dalle sue bellezze e più vicina ai suoi demoni, innesta una tensione narrativa notevole, anche grazie a un uso magistrale delle musiche.
Parla di molte cose: ricordi, senso di colpa, espiazione, perdono, vendetta e, appunto, nostalgia. Il tutto si materializza nello sguardo di Favino, ma soprattutto nella sua inflessione vocale, in un uomo che per 40 anni ha parlato l’arabo e ha una dizione spuria che progressivamente si scioglie. La sua interpretazione è da applausi, il resto del cast è funzionale e azzeccato nel disegno dei personaggi.
In concorso al Festival di Cannes, un bel prodotto!
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