In un post di qualche tempo fa, Pierluigi parlava (cito quasi alla lettera) di “una patina di plastica e di uno strato di polvere che ricoprono ciò che un tempo era bello, elegante e raffinato”. Quando ho cominciato a leggere Le braci di Sándor Márai ho avuto la stessa impressione: ci sono due uomini, amici fraterni d’infanzia e compagni durante il collegio militare viennese che si danno appuntamento dopo 41 anni di lontananza. Il primo, Henrik, di nobili origini, ha avuto un’illustre carriera militare; il secondo, Konrad, scappò improvvisamente abbandonando gli studi e ricostruendo la sua vita negli esotici Tropici e in giro per il mondo.
Al momento dell’incontro i due uomini hanno ormai vissuto pienamente la loro vita. Il racconto ne tratteggia i contorni e richiama i fasti di un’infanzia celebrata come “bella, elegante e raffinata” fatta di cene sfarzose, arredamenti ricercati e battute di caccia. Ma il passato, appunto, è come se fosse ricoperto da “una patina di plastica e uno strato di polvere” si sente la stanchezza e la vacuità di anni che non sono realmente importanti, perché la bellezza e la carriera non sono niente davanti a un fatto, unico, che stravolge la vita.

In questa sera che ci vede riuniti non ha senso parlare di nient’altro all’infuori della verità, dell’essenziale, perché il nostro incontro non si ripeterà, e forse non saranno più molti i giorni e le sere che seguiranno, tantomeno poi le serate speciali come questa

Il nucleo attorno al quale ruota il romanzo è un doppio tradimento: di una donna amata e di un’amicizia violata, fino a sfiorare tragiche conseguenze. Il lungo monologo in cui il generale Henrik ripercorre quei fatti è un’introspezione maturata in 41 anni e raccontata finalmente a voce alta come una lunga confessione.

… ho deciso di venire a parlarti, senza rendermi conto che qualsiasi cosa io ti chieda e qualsiasi cosa tu mi risponda non servirà a cambiare i fatti. Ma potremmo se non altro conoscerli. Le domande e le risposte potrebbero almeno avvicinarci alla realtà. È l’unica cosa che mi aspetto dal mio colloquio con te.

Il romanzo finisce con l’accumularsi di domande che non possono trovare una reale risposta.
Quanto può consumare una vita il rimuginio e la ricerca instancabile e ossessiva della verità? Quanta pazienza ci vuole per ripercorrere giorno dopo giorno sensazioni e sospetti, fino a convincersi che sia tutto vero? Come si conserva un legame così profondo davanti a tradimenti e ferite altrettanto profonde?

Cosa abbiamo guadagnato con il nostro orgoglio e la nostra presunzione? Il vero significato della nostra vita non è stato forse questo: l’attrazione irresistibile per una donna che è morta? […] Ma chissà che, in fondo, il significato della nostra vita e di tutte le nostre azioni non sia stato il legame che ci univa a qualcuno

 

Márai riesce a condensare in poco meno di 200 pagine domande universali che vanno al di là della storia narrata e che toccano tutti. Lo fa con una scrittura lenta e riflessiva capace di raggiungere picchi altissimi di tensione che poi defluiscono come un fiume in piena che torna nel suo letto lasciando segni profondi del suo passaggio. Quelle domande rimangono impresse nella mente del lettore e trovano risposte sempre diverse nel corso della vita.

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