Lavoro da abbastanza tempo nella comunicazione per potermi permettere un titolo come questo.

Qui dentro non ho mai scritto qualcosa pensando all’ottimizzazione per i motori di ricerca [I motori? Dai…] e ne sono ben contento.

Non è stato un incidente: il web si è suicidato. L’abbiamo guardato farlo, in silenzio, mentre cedeva il controllo a una manciata di piattaforme. Ha cominciato a morire quando abbiamo lasciato che un solo motore di ricerca, Google, sì, decidesse le regole. Quando abbiamo consegnato le nostre community, nate con fatica e passione, nelle mani di pochi social network.

Per anni si è scritto per un algoritmo, non per le persone. Ogni articolo, ogni parola, ogni titolo è stato costruito pensando a come piacerà a Google, non a chi ci leggeva davvero. Abbiamo sacrificato l’identità dei blog per rincorrere il traffico. E quel traffico era vuoto, cieco, disinteressato.

Nel frattempo, Facebook ha fatto il resto. Ha ingoiato le nostre community, ci ha tolto lettori, discussioni, relazioni. I commenti sono scomparsi. L’interazione si è spenta. E con essa, anche la linfa vitale dei nostri siti.

Un pubblico piccolo ma partecipe è stato scambiato con una massa disattenta. C’è stato un baratto tra qualità e quantità, e alla fine ci siamo ritrovati con niente.

I blog erano nati per passione. Sì scriveva nei ritagli di tempo, con la voglia di condividere idee e conoscenze. E chi li leggeva lo faceva per lo stesso motivo: per amore. Poi è diventato un lavoro. E il lavoro, si sa, ha bisogno di guadagno. Ma quando regali i tuoi contenuti, l’unico modo per monetizzare diventa la pubblicità, e da lì il declino: si è iniziato a pubblicare centinaia, migliaia di news. Attualità: poche righe, contenuto zero, ma interessante per chi non ha tempo e scrolla su Facebook col cervello spento. Migliaia di news al giorno. E poi il clickbait: facciamoli cliccare questi utenti e facciamoli atterrare sui nostri siti. Condite il tutto con le fake news: sono nati centinaia, migliaia di siti creati unicamente per generare traffico e monetizzare i banner.

Merda, ricoperta di merda.

Noi abbiamo resistito: niente banner, solo contenuti coerenti con il progetto. Però noi non lo facciamo per soldi, e per chi invece [lecitamente] lo fa il mercato è cambiato. Gli inserzionisti hanno scoperto gli influencer, i creator, le nuove piattaforme. E i soldi si sono spostati lì: i banner sono esplosi, le piattaforme di Real Time Bidding hanno reso tutto più redditizio, almeno all’inizio. Ma il prezzo da pagare è stato altissimo: siti pieni di pubblicità invasiva, pop-up, autoplay, interruzioni continue. Spazzatura ovunque.

Il risultato? Siti editoriali trasformati in fabbriche di contenuti inutili. E chi voleva davvero fare informazione di qualità è stato distrutto.

Durante la pandemia, il traffico è esploso, i banner si sono moltiplicati ancora, ma era un’illusione. Ora, finita la sbornia, c’è il ritorno alla realtà: la pubblicità online rende sempre meno, le persone sono esauste, e nessuno vuole più leggere contenuti ricoperti di pubblicità.

Vent’anni a regalare lavoro, e adesso che vorremmo farlo pagare nessuno è disposto a farlo: gli abbonamenti, salvo casi eccezionali, non funzionano e le aree premium nemmeno.

Eppure, in mezzo a questo deserto, qualcosa si muove. Nascono micro-community, progetti editoriali indipendenti che scelgono un’altra strada. Un web più piccolo, più lento, ma più umano. Non tutto è perduto.

Noi non ci siamo mossi di un passo, e forse abbiamo fatto la cosa giusta. Guardate, non è una lezione di coerenza, non è uno sfogo, è solo una presa d’atto: siamo sempre più convinti delle nostre motivazioni iniziali e se i pezzi non sono scritti come preferisce Google pazienza: a Mountain View dormiranno sonni tranquilli, figurarsi noi.

[Ho scritto questo post ascoltando]

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