Ancora un articolo da Internazionale, questa volta di Jodi Dean, che insegna teoria politica agli Hobart and William Smith colleges, nello stato di New York, ed è attiva in alcuni gruppi politici locali.
Poi torniamo ai contenuti originali, ma credetemi: è davvero illuminante.
Nel suo ‘Capital is dead’ , McKenzie Wark chiede: e se fossimo passati dall’era del capitalismo a quella di qualcosa di peggio? La domanda è provocatoria, sacrilega, inquietante, perché costringe gli anticapitalisti a prendere atto di un inconfessato attaccamento al capitalismo. Dopo il capitalismo doveva esserci il comunismo ma non è arrivato: significa che siamo ancora nel capitalismo? Se non viene messa in discussione, questa ipotesi impedisce qualsiasi analisi politica. Se abbiamo respinto il rigido determinismo storico, dovremmo essere in grado di considerare la possibilità che il capitalismo si sia trasformato in qualcosa di qualitativamente diverso. La domanda di Wark ci invita a fare un esperimento mentale: quali tendenze del presente indicano che si sta trasformando in qualcosa di peggiore?
Negli ultimi dieci anni, ha cominciato a circolare la parola “neofeudalesimo” per indicare tutte le tendenze di oggi associate all’estrema disuguaglianza, alla precarietà generalizzata, al potere monopolistico e ai cambiamenti a livello statale. Prendendo spunto dall’enfasi dell’economista libertario Tyler Cowen sul permanere di un’estrema disuguaglianza nell’economia globale automatizzata, il geografo conservatore Joel Kotkin immagina un futuro in cui negli Stati Uniti predominerà la schiavitù di massa. Per sopravvivere, una sottoclasse di persone proprietarie di nulla dovrà soddisfare i bisogni delle classi a reddito elevato svolgendo le funzioni di assistenti, personal trainer, bambinaie, cuochi, addetti alle pulizie e così via. L’unico modo per evitare questo incubo neofeudale è sovvenzionare e deregolamentare le industrie ad alto tasso d’impiego che rendono possibile lo stile di vita americano, basato sulla casa di proprietà nei quartieri residenziali: il settore edilizio e immobiliare, quello del petrolio, della benzina, delle automobili e l’industria agroalimentare. A differenza di Friedrich von Hayek, che agita lo spettro della servitù nel suo attacco al socialismo, Kotkin colloca l’avversario all’interno del capitalismo. L’alta tecnologia, la finanza e la globalizzazione stanno creando “un nuovo ordine sociale che per certi versi somiglia più al sistema feudale – con i suoi spesso insuperabili ostacoli alla mobilità – che ai caotici inizi del capitalismo industriale”. In questo immaginario libertario conservatore, il feudalesimo prende il posto del nemico, che fino a quel momento era occupato dal comunismo. Il pericolo della centralizzazione e la minaccia alla proprietà privata sono gli elementi ideologici che restano immutati.
Un certo numero di commentatori tecnologici, pur non essendo favorevole ai combustibili fossili e ai quartieri periferici residenziali, condivide questa critica al ruolo della tecnologia nella feudalizzazione moderna. Già nel 2010, nel suo influente libro ‘Tu non sei un gadget’, il guru della tecnologia Jaron Lanier osservava l’emergere di feudatari e servi della gleba in rete. Questa tesi ha acquistato ulteriore rilevanza da quando alcune aziende tecnologiche hanno cominciato a diventare sempre più ricche e basate sull’estrazione di risorse, trasformando i loro proprietari in miliardari, pagando una miseria i dipendenti, facendo lavorare gratuitamente gli utenti e sfruttando le agevolazioni fiscali concesse da città che hanno un disperato bisogno di posti di lavoro. Nel loro insieme, Apple, Facebook, Microsoft, Amazon e Alphabet (cioè Google) valgono più di quasi tutti i paesi del mondo (eccetto gli Stati Uniti, la Cina, la Germania e il Giappone). Le dimensioni economiche e l’influenza di questi supercolossi della tecnologia, o grandi feudatari, sono superiori a quelle della maggior parte dei cosiddetti stati sovrani. Evgeny Morozov definisce il loro predominio “una forma ipermoderna di feudalesimo”.
Albert-László Barabási spiega il processo che è alla base di questo nuovo feudalesimo nella sua analisi della struttura delle reti complesse, cioè quelle caratterizzate dalla libera scelta, dalla crescita e dall’attaccamento preferenziale, cioè la tendenza a preferire connessioni con ciò che è già altamente connesso. È in queste reti che le persone compiono volontariamente delle scelte e condividono link. Il numero di link di un sito aumenta nel tempo e alle persone piacciono certe cose perché piacciono agli altri (il sistema di suggerimenti di Netflix, per esempio, si basa su questo presupposto). Nelle reti complesse, la distribuzione dei link segue una legge di potenza in base alla quale in genere l’oggetto più popolare ha il doppio di visualizzazioni e di link di quello al secondo posto, che ne ha il doppio di quello al terzo e così via, fino alle differenze insignificanti tra quelli che si collocano nella lunga coda della curva di distribuzione. Questo effetto del “chi vince prende tutto”, o quasi tutto, è la legge di potenza della distribuzione. Chi è in cima ha molto di più di chi è in fondo. La forma che assume il grafico della distribuzione non è una curva a campana, è una curva con una lunga coda: pochi miliardari, un miliardo di lavoratori precari. La struttura delle reti complesse favorisce l’inclusione: più soggetti ci sono nella rete, maggiori sono le ricompense per quelli che sono in cima. Stimola anche la competizione per ottenere l’attenzione, le risorse, il denaro, i posti di lavoro, qualsiasi cosa abbia la forma di una rete. E porta alla concentrazione. Quindi il risultato della libera scelta, della crescita e dell’attaccamento preferenziale è una gerarchia, una distribuzione della legge di potenza in cui quelli che sono in cima hanno enormemente di più di quelli che sono in fondo.
Questa distribuzione non è inevitabile. Può essere fermata. Ma per farlo servono la volontà politica e il potere istituzionale per applicarla. Nel suo libro ‘Globalists. The end of empire and the birth of neoliberalism’, Quinn Slobodian illustra la strategia neoliberista d’indebolire l’autorità dello stato nazione nell’interesse del commercio globale. Minacciati dalle richieste dei paesi postcoloniali del sud del mondo, che reclamavano risarcimenti, sovranità sulle proprie risorse naturali, stabilizzazione dei prezzi delle materie prime e regolamentazione delle aziende transnazionali, negli anni settanta i neoliberisti hanno cercato di “aggirare l’autorità dei governi nazionali”, sostenendo la necessità di un federalismo competitivo che avrebbe permesso al capitale di controllare i governi, rimanendo esso stesso immune dal controllo democratico. Per usare le parole di Hans Willgerodt, uno dei neoliberisti citati da Slobodian, il nuovo federalismo competitivo richiedeva che lo stato “condividesse la propria sovranità verso il basso con strutture federali e s’impegnasse verso l’alto a far parte di una comunità internazionale”
Invece di concentrarsi sulle origini del neoliberismo, ‘Capitalism on edge’ di Albena Azmanova dimostra come questo ha portato a un nuovo capitalismo della precarietà. Le politiche a favore della deregolamentazione e del libero scambio globale hanno avuto conseguenze inaspettate. Da un sistema di “economie nazionali che s’integravano con accordi commerciali, il mercato globale si è trasformato in una serie di reti di produzione transnazionali”. A causa del contributo ambiguo di queste reti alle economie nazionali, mantenerne la competitività è diventato “l’obiettivo principale della politica”. La competitività ha sostituito la crescita come obiettivo dello stato, le cui priorità hanno smesso di essere la concorrenza leale e lo smantellamento dei monopoli, per diventare “l’aiuto a particolari soggetti economici, che sono nella posizione migliore per avere successo nella competizione globale per il profitto”.
La concentrazione monopolistica, l’aumento delle disuguaglianze e l’assoggettamento dello stato al mercato hanno completamente cambiato il modo in cui si accumula la ricchezza, che ora si ottiene con le concessioni, i debiti e la forza quanto con la produzione di merci. Azmanova fa notare che la privatizzazione di settori dell’economia relativamente immuni dalla competizione – energia, ferrovie, banda larga – ha concesso ai loro proprietari “il privilegio di vivere di rendita”. In tutto il mondo, nei settori della conoscenza e della tecnologia, il reddito che deriva dall’accumulo dei diritti di proprietà intellettuale supera quello che deriva dalla produzione di merci. Negli Stati Uniti, i servizi finanziari contribuiscono al prodotto interno lordo più delle manifatture. Il capitalismo si sta trasformando in neofeudalesimo.
Parlare di neofeudalesimo non significa dire che l’attuale capitalismo della comunicazione o delle reti riproduce tutte le caratteristiche del feudalesimo europeo. Non è così. Anzi, come hanno ben dimostrato gli storici, l’idea stessa di un unico feudalesimo europeo è un’invenzione. Nel continente si svilupparono varie forme di feudalesimo in risposta a diversi tipi di pressioni. Leggere il capitalismo contemporaneo concentrandosi sulla sua tendenza a creare feudi fa emergere una nuova struttura socioeconomica con quattro caratteristiche interdipendenti: la parcellizzazione della sovranità, i nuovi feudatari e servi della gleba, l’espansione degli hinterland e il catastrofismo.
Secondo gli storici Perry Anderson ed Ellen Meiksins Wood la parcellizzazione della sovranità è un tratto fondamentale del feudalesimo europeo. La società feudale nacque quando l’amministrazione centralizzata dell’impero romano “lasciò il posto a un mosaico di potentati in cui le funzioni statali erano frammentate sia in verticale sia in orizzontale”. Accordi locali di vario tipo, come quelli tra feudatari e re e tra feudatari e vassalli, andarono ad aggiungersi all’amministrazione regionale. L’arbitrato sostituì la legge. La linea di separazione tra legalità e illegalità si assottigliò. L’autorità politica e il potere economico si mescolarono quando i feudatari cominciarono a impossessarsi legalmente del sovrappiù prodotto dai contadini con l’imposizione legale. Wood scrive: “La conseguenza fu la fusione tra sfruttamento privato del lavoro e ruolo pubblico dell’amministrazione, dell’autorità e dell’applicazione della legge”.
Nel neofeudalesimo si riafferma il carattere direttamente politico della società. Le istituzioni finanziarie globali e le piattaforme della tecnologia digitale usano il debito per ridistribuire ricchezza dai più poveri del mondo ai più ricchi. Gli stati nazione promuovono e proteggono specifiche aziende private. Il potere politico viene esercitato come potere economico, non solo con le tasse, ma anche con le multe, il credito, il sequestro di beni, le licenze, i brevetti, le giurisdizioni e i confini. Da parte sua, il potere economico difende dalle leggi dello stato chi lo esercita. Il 10 per cento della ricchezza globale è accumulato nei paradisi fiscali per non pagare le tasse. Le città e gli stati hanno rapporti con Apple, Amazon, Microsoft, Facebook e Google/Alphabet come se fossero stati sovrani, negoziando con loro e cooperando alle loro condizioni. Comuni a corto di fondi usano complicati sistemi di multe per spillare direttamente soldi alle persone, colpendo soprattutto i più poveri. Nel suo ‘Punishment without crime’, Alexandra Natapoff illustra il peso della legge che regola i reati minori sull’enorme sistema carcerario degli Stati Uniti. I poveri, in grande maggioranza neri, vengono arrestati con false accuse e convinti a dichiararsi colpevoli per evitare gli anni di carcere che rischierebbero se le contestassero. Questa confessione non solo finisce sulla loro fedina penale, ma apre la strada a una serie di sanzioni economiche che aumentano se saltano un pagamento. Abbiamo visto come funziona questo sistema d’illegalità legale e di amministrazione iniqua della giustizia dopo le sommosse seguite all’assassinio di Michael Brown a Ferguson, in Missouri, nel 2014. “Il tribunale cittadino e le forze di polizia hanno spillato milioni di dollari alla popolazione afroamericana a basso reddito”. Gli agenti avevano ricevuto l’ordine di “operare arresti e citare in giudizio più persone possibile per fare cassa”. Come i tirapiedi dei signori feudali, hanno usato la forza per derubare la popolazione.
I rapporti feudali erano caratterizzati da una fondamentale disuguaglianza che consentiva lo sfruttamento dei contadini da parte dei feudatari. Perry Anderson cita il monopolio dei mulini ad acqua, che erano di proprietà dei feudatari. I contadini erano obbligati a macinare il grano nel mulino del loro signore, servizio per il quale dovevano pagare. Perciò non solo lavoravano terre che non possedevano, ma vivevano in condizioni nelle quali il feudatario era, come dice Marx, “signore e padrone del processo di produzione e dell’intera vita sociale”. Diversamente dal capitalista, il cui profitto è il valore aggiunto generato da lavoratori salariati con la produzione di beni, il signore feudale trae profitto dal monopolio, dalla coercizione e dalle concessioni.
Le piattaforme digitali sono i nuovi mulini, i loro proprietari miliardari sono i nuovi signori feudali e le migliaia di lavoratori e i miliardi di utenti sono i nuovi contadini. Le società tecnologiche hanno una forza lavoro relativamente limitata, ma hanno modificato intere industrie, che ormai si basano sulla ricerca, l’acquisizione e l’uso di dati. La forza lavoro ridotta è indicativa del carattere neofeudale della tecnologia digitale. L’accumulo di capitale avviene non tanto con la produzione di beni e il lavoro salariato ma con la vendita di servizi, le concessioni, le licenze, i diritti, il lavoro gratuito (spesso mascherato da partecipazione) degli utenti e l’uso dei dati come se fossero risorse naturali. Proponendosi come intermediarie, la piattaforme costituiscono il terreno di attività degli utenti, l’unico luogo in cui possono avvenire interazioni. Google consente di trovare informazioni in un ambiente enormemente ricco e mutevole. Amazon consente di trovare facilmente articoli di consumo, confrontare prezzi e fare acquisti da venditori noti o sconosciuti. Uber permette a persone che non si conoscono di condividere un viaggio in auto. Airbnb fa la stessa cosa con le case e gli appartamenti. Tutto questo è possibile grazie a un’immensa generazione e circolazione di dati. Le piattaforme non solo sfruttano i dati, ma ne producono altri. Più persone le usano, più le piattaforme diventano funzionali e potenti, e alla fine modificano l’ambiente di cui fanno parte.
Nelle piattaforme lo sfruttamento avviene a due livelli. Diversamente dai mulini, che i contadini non potevano scegliere di non usare, le piattaforme non solo si propongono in modo tale da rendere il loro uso praticamente indispensabile (come quello delle banche, delle carte di credito, dei telefoni e delle strade), ma anche da consentire ai loro proprietari di accumulare i dati generati dal loro uso. Non solo gli utenti pagano il servizio ma la piattaforma raccoglie i dati generati dall’uso del servizio. Il cloud incassa affitti e dati. Gli esempi più estremi sono Uber e Airbnb, che incassano affitti senza possedere mobili né immobili, contando su una forza lavoro in appalto responsabile del proprio mantenimento, della formazione e dei mezzi di lavoro. Una macchina non è più un mezzo di trasporto personale, serve a fare soldi. Un appartamento non è più un posto in cui vivere, è qualcosa da affittare. Gli oggetti di consumo diventano strumenti per arricchirsi e le proprietà personali mezzi per fare accumulare capitale ai signori della piattaforma. La tendenza a comportarsi come contadini, cioè come persone che possiedono i mezzi di produzione ma il cui lavoro accresce il capitale del proprietario della piattaforma, è neofeudale.
I colossi della tecnologia si basano sull’estrazione di risorse. Come i tributi feudali, le loro agevolazioni fiscali tolgono soldi alle comunità. La loro presenza fa aumentare gli affitti e i prezzi degli immobili, fa sparire dai quartieri gli appartamenti abbordabili, i piccoli negozi e le persone a basso reddito. E come i feudatari facevano con i re, Facebook e Google collaborano con gli stati più potenti, condividendo informazioni che quegli stati non potrebbero legalmente raccogliere. Nel complesso, l’aspetto estrattivo delle tecnologie in rete è ormai pervasivo, intrusivo e inevitabile. Il presente non è letteralmente un’epoca di contadini e feudatari, ma la distanza tra ricchi e poveri sta aumentando, con l’aiuto di un sistema legale differenziato che protegge le società, i proprietari e i padroni di casa mentre impoverisce e incarcera le classi inferiori e operaie.
Un terzo aspetto del neofeudalesimo è il tipo di spazio che gli viene di solito associato, fatto di centri protetti spesso pieni di vita circondati da hinterland agricoli e desolati. Potremmo definirla una separazione tra città e campagna, tra zone municipali e rurali, tra i centri urbani e le campagne che li circondano o, in maniera più astratta, come un interno separato da un esterno, una divisione tra ciò che è sicuro e ciò che è pericoloso, tra chi è ricco e chi è disperato. Wood dice che le città medievali erano essenzialmente oli garchie “in cui le classi dominanti si arricchivano con i commerci e i servizi finanziari offerti a re, imperatori e papi. Nel loro insieme, dominavano le campagne circostanti, dalle quali in un modo o nell’altro estraevano ricchezza”. Fuori dalle città c’erano i nomadi e i migranti che, a causa delle condizioni di vita insopportabili, cercavano altri posti in cui vivere e lavorare, ma spesso si trovavano davanti un muro.
Gli hinterland degli Stati Uniti sono luoghi di smarrimento e smantellamento, dove si fantastica di un florido passato capitalista che per un po’ di tempo ha dato a qualcuno la speranza che la sua vita e quella dei suoi figli potesse veramente migliorare. Resti di un capitalismo industriale che li ha lasciati indietro per affidarsi a manodopera meno costosa, gli hinterland sono pronti per il nuovo intenso sfruttamento del neofeudalesimo. Non fabbricando più oggetti, i loro abitanti sopravvivono lavorando in magazzini, call center, negozietti e fast food. Il recente libro di Phil A. Neel ‘Hinterland ‘sottolinea le somiglianze tra Cina, Egitto, Ucraina e Stati Uniti: sono tutti paesi pieni di lande desolate e quasi disabitate e città al limite del sovraffollamento.
I nuovi hinterland portano anche alla perdita della capacità generale di riprodurre le condizioni per una vita vivibile. Questo appare evidente nell’aumento del tasso di suicidi, dell’ansia e dell’uso di droghe, nel calo del tasso di natalità, nella minore aspettativa di vita e, negli Stati Uniti, nella psicotica autodistruzione degli omicidi di massa. Si manifesta nel collasso delle infrastrutture, nell’acqua imbevibile e nell’aria irrespirabile. Gli hinterland sono scritti sul corpo delle persone e nella terra. Con la chiusura degli ospedali e delle scuole e la diminuzione dei servizi essenziali, la vita diventa sempre più disperata e incerta.<br /><br />
Infine, il neofeudalesimo porta con sé l’insicurezza, l’ansia e un opprimente senso di catastrofe imminente, in un pianeta disgustosamente iniquo e che si sta riscaldando.
Un’ideologia neofeudale vagamente mistica, che si aggiunge all’insicurezza apocalittica e la amplifica, sembra stia assumendo la forma di un nuovo interesse per l’occulto, tecno-pagano e antimoderno. Tra gli esempi di questo ci sono lo junghismo mistico di Jordan Peterson e la geopolitica mitica di Atlantide e Iperborea di Aleksandr Dugin. Potremmo anche citare l’emergere di neoreazionari tecnologici come Peter Thiel, il miliardario fondatore di PayPal, il quale sostiene che la libertà è incompatibile con la democrazia. Durante una conferenza nel 2012, Thiel ha spiegato il legame tra feudalesimo e startup tecnologiche: “Nessun fondatore o amministratore delegato ha mai il potere assoluto. La loro struttura è un po’ come quella feudale. Il popolo conferisce al capo ogni potere, e poi lo critica se le cose vanno storte”. Come altri capitalisti della Silicon valley, Thiel si preoccupa di difendere la propria fortuna dall’interferenza della democrazia, quindi caldeggia strategie di esodo e isolamento come vivere in mare, la colonizzazione dello spazio o qualunque cosa sia utile per difendere la ricchezza dalle tasse. Il capitalismo estremo va verso il decentramento estremo del neofeudalesimo.
Quelli che stanno dall’altra parte dello spartiacque neofeudale curano l’ansia e l’insicurezza non tanto con l’ideologia quanto con gli oppioidi, l’alcol e il cibo, con qualsiasi cosa che possa attutire il dolore di una vita infinitamente faticosa, insensata e senza speranza. Il catastrofismo neofeudale può essere individuale, familiare o locale. E preoccuparsi seriamente per il cambiamento climatico è difficile quando si vive la catastrofe da diverse generazioni.
Qual è il vantaggio di pensare al nostro attuale capitalismo della precarietà come a un fenomeno post capitalistico e neofeudale? Per conservatori come Joel Kotkin, l’ipotesi neofeudale è un aiuto per individuare quello che vogliono difendere – il capitalismo del carbonio e lo stile di vita americano – e chi devono combattere, cioè quell’élite capitalista che si sta arricchendo a spese della classe media e i suoi alleati nel mondo della finanza. Il neofeudalesimo rientra in una diagnosi che mira a ottenere l’appoggio della classe operaia a una parte della classe capitalistica: quella dei combustibili fossili, delle proprietà immobiliari e dell’industria agroalimentare.
Per chi è di sinistra, l’ipotesi del neofeudalesimo è un modo per capire che il conflitto politico principale nasce dal neoliberismo.
Oggi il grande scontro non è tra democrazia e fascismo. Anche se molto diffusa nella sinistra, questa formulazione non ha più senso. Vedere il nostro presente in termini di democrazie minacciate dall’ascesa del fascismo distrae l’attenzione dal ruolo fondamentale del capitalismo della comunicazione globale nell’incrementare la rabbia e lo scontento popolare. Alla base dello spostamento politico a destra c’è l’economia: reti complesse che producono disuguaglianze estreme, distributori che si prendono tutto o quasi tutto. Lo spostamento a destra è la reazione a questo aumento delle disuguaglianze. Quando la sinistra è debole o frenata nella sua espressione politica dai mezzi d’informazione e dai partiti capitalisti, la rabbia popolare è espressa da qualcun altro, qualcuno che sia disposto ad attaccare il sistema. Oggi questo qualcuno è l’estrema destra. Quindi pensare in termini di neofeudalesimo ci aiuta a prendere coscienza del fatto che ci sono persone che accumulano miliardi di dollari di beni e si trincerano nelle loro enclave, mentre milioni di esseri umani diventano rifugiati climatici e centinaia di milioni lottano solo per sopravvivere.
L’ipotesi del neofeudalesimo indica anche un cambiamento delle relazioni industriali. La premessa della socialdemocrazia era il compromesso tra lavoro e capitale. Nella maggior parte del nord del mondo le organizzazioni dei lavoratori hanno creato una classe operaia disposta a collaborare in cambio di un po’ della bella vita. La sconfitta del lavoro e il successivo smantellamento dello stato sociale avrebbero dovuto dimostrare una volta per tutte il fallimento di una strategia che richiede un compromesso con lo sfruttamento capitalista. Ma alcuni socialisti continuano a sperare in un capitalismo più gentile e benevolo, come se i capitalisti fossero disposti a venire a patti e non fossero anche loro soggetti alla logica di mercato che rende più attraente riacquistare le proprie azioni anziché investire nella produzione. L’ipotesi neo feudale ci dice che qualsiasi lotta dei lavoratori che parte dalla premessa del mantenimento del capitalismo è un buco nell’acqua. Il capitalismo è già diventato qualcosa di peggio.
Nelle economie del nord del mondo, la maggior parte delle persone lavora nei servizi. Secondo un rapporto dell’ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti, nei prossimi dieci anni il settore che offrirà più posti di lavoro sarà quello dei badanti, non del personale sanitario ma di quelli che lavano e puliscono le persone. La dipendenza della classe dominante dal settore dei prestatori di servizi – personale delle pulizie, cuochi, fornitori di generi alimentari, cassieri, fattorini, magazzinieri e così via – fa pensare che ci saranno nuovi motivi di lotta, punti deboli grazie ai quali i lavoratori potranno esercitare il loro potere. Se nell’era del capitalismo le lotte operaie si svolgevano nei luoghi di produzione, nel neofeudalesimo saranno nei luoghi di servizio.
Infine, quella del neofeudalesimo è una tesi che ci permette d’individuare il principale punto debole della sinistra odierna: le idee di sinistra che vanno per la maggiore sono quelle che affermano il neofeudalesimo, non quelle che lo contestano. L’enfasi sulla sussistenza e la sopravvivenza parte dal presupposto che le economie rurali sarebbero accettabili non solo per quella metà del pianeta che vive nelle città (compreso l’82 per cento dei nordamericani e il 74 per cento degli europei), ma anche per i milioni di profughi in fuga dal riscaldamento globale, dalle guerre e dal furto di terre. Per molti di quelli che vivono negli hinterland le condizioni politiche, culturali, economiche e climatiche sono tali da non permettergli di sopravvivere solo con il lavoro agricolo. L’idea del reddito universale di base è improponibile: consentirebbe solo di tirare avanti a chi vive negli hinterland e in città sarebbe a malapena sufficiente per pagare un affitto. Il catastrofismo diventa il modo moderno per distruggere ogni speranza, come se i prossimi cento anni non contassero niente.
Anziché essere ancorata all’emancipazione di una classe lavoratrice multinazionale impegnata in un’ampia serie di lavori retribuiti, sottopagati o non pagati affatto, la visione del neofeudalesimo della sinistra non riesce a vedere una classe lavoratrice. Quando il lavoro è immaginato – e a sinistra alcuni pensano che dovremmo adottare questo “immaginario del post-lavoro” – somiglia a un’attività campestre romantica e priva di rischi o a un’attività tecnologica, un “lavoro immateriale”. Ma ormai le denunce del lavoro nei call center, per non parlare della fatica di monitorare siti come Facebook alla ricerca di contenuti illeciti e inquietanti, hanno reso evidente l’inadeguatezza dell’idea di lavoro immateriale. Dovrebbe essere altrettanto evidente che l’immaginario del post-lavoro non tiene neanche conto della produzione e della manutenzione delle infrastrutture, di tutti i lavori necessari per la riproduzione sociale e della struttura statale che è alla base di tutto .
L’ipotesi neofeudale quindi ci permette di vedere sia il fascino sia la debolezza delle idee di sinistra più popolari. Sono affascinanti perché riflettono una sensazione dominante. Sono deboli perché quella sensazione dominante è espressione della tendenza al neofeudalesimo.
Come i rapporti feudali sopravvissero nell’era del capitalismo, i rapporti capitalistici di produzione e sfruttamento sopravvivono nel neofeudalesimo. La differenza è che le dimensioni non capitalistiche della produzione – l’espropriazione, il predominio e la forza – sono cresciute a tal punto che non ha più senso pensare, neanche come ipotesi fantasiosa, che nel mercato del lavoro s’incontrino attori liberi e paritari. Questo significa che l’affitto e il debito incidono quanto o più del profitto sull’accumulo della ricchezza, e che l’offerta di lavoro supera sempre quella di salario. Che cosa succede quando il capitalismo è globale? Si ripiega su se stesso generando, fagocitando e sfruttando aspetti della vita umana con reti digitali e mezzi d’informazione personalizzati. Questa autocannibalizzazione produce nuovi feudatari e schiavi della gleba, grandi fortune ed estreme disuguaglianze, e la parcellizzazione delle sovranità che garantisce il permanere di queste disuguaglianze mentre le moltitudini vagano e languiscono negli hinterland.Esiste la possibilità che il capitalismo si sia trasformato in qualcosa di diverso. Ma quali tendenze del presente indicano che si sta trasformando in qualcosa di peggiore?
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