Nel 2000 l’Eta, organizzazione terroristica per l’indipendenza dei Paesi Baschi, assassina Juan Maria Jauregui: a eseguire il delitto sono tre uomini, tra cui ci sono Luis (U. Olazabal) e Ibon (L. Tosar), che vengono poi arrestati e condannati per questo e altri delitti. Anni dopo, in carcere insieme, iniziano a prendere in considerazione, ciascuno con i suoi tempi, un percorso di riconciliazione con le vittime del terrorismo, in particolare avrebbero la possibilità di incontrare la vedova di Jauregui, Maisxabel (B. Portillo). Quest’ultima, che vive sotto scorta perchè a sua volta minacciata dopo la morte del marito, vuole guardare in faccia chi ha distrutto la sua famiglia. Sua figlia Maria (M. Cerezuela), che aveva 19 anni quando il padre fu assassinato, è molto dubbiosa sulla scelta della madre. La storia si chiude, dopo oltre 10 anni, mentre sullo sfondo l’Eta annuncerà (nel 2011) l’abbandono della lotta armata.
Ispirato a una storia vera, “Una donna chiamata Maixabel” è un piccolo film importante, che non si può perdere: parla di violenza, perdono, espiazione, senso di colpa, dolore, elaborazione del lutto. Lo fa affrontando un tema scomodo, come quello della giustizia riparativa e della riconciliazione tra carnefici e famigliari delle vittime. Non giudica, affida il racconto a una bella squadra di interpreti, con una sceneggiatura ben oliata e senza smagliature (persino la musica è praticamente assente), dove il pathos culmina nel confronto tra Maixabel e gli assassini del marito.
Commuove e colpisce in profondità. Ha vinto 3 Goya, gli Oscar del cinema spagnolo.
Da vedere assolutamente!
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