Stavo solo pranzando con i miei pensieri in un qualunque bar, uno di quelli che allineano su uno scaffale tanti microonde, quasi fosse un vanto. Una giornata come tante altre ad eccezione di quella pioggia orribile e nebulizzata che fa di Torino la capitale del grigio.
Insomma ero lì e basta, senza pretese di mangiare bene nè di nutrirmi in modo adeguato: capita no? Non tutti i pranzi sono memorabili durante una settimana qualunque.
Se è stato memorabile, se ne scrivo, non è merito mio.
Ho incontrato lo sguardo di quest’uomo, ci ho visto la disperazione e mi sono fermato con la forchetta a mezz’aria; era il mio vicino di tavolino e stava dicendo al telefono ‘Ah. Capisco. Sì’, una cosa del genere. Non tanto le parole, ma gli occhi che trasudavano letteralmente disperazione mi hanno lasciato di sasso.
Ora, ultimamente passo una buona parte del mio tempo a cercare di evidenziare l’altrui disperazione, una disperazione lontana, che viene dalla Siria, o dalla Libia, dalla Nigeria o da qualche altro inferno, ma quella ce l’avevo davanti. E’ diverso.
Così abbiamo parlato e ho capito perchè era disperato, ho capito che non potevo alleviare in alcun modo quella disperazione, ho provato ad accompagnare per una ventina di minuti quest’uomo di cui non conosco nome nè storia ad eccezione di un pezzetto di triste passato e di incerto futuro.
Mi sono sentito inutile e fortunato, inefficace e solidale.
Siamo fatti di parti, credo: tifo per lui con la mia parte più sciocca, quella che ancora spera.
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