Altro post di Loretta Patrini: alla via così!
Faccio un lavoro piuttosto comune, eppure nella sua ordinarietà mi capita di ricevere gratitudine per quello che è semplicemente il mio lavoro.
Non credo di lavorare meglio di altre persone, faccio sul serio soltanto quello che devo fare, eppure mi rendo conto che il modo in cui ci si pone con le persone, ed è sufficiente un livello di minimo sindacale di gentilezza, fa un’enorme differenza.
Il risultato a volte appare quasi salvifico, come se stessi migliorando la giornata delle persone.
Nei miei lunghissimi viaggi verso casa che ogni giorno compio, attraverso Torino dal sud al nord della città, ed è un momento molto intimo per me, posso riflettere profondamente su ciò che voglio, prima di rientrare in casa e pensare alla vita pragmatica.
Così mi è tornato in mente un episodio accaduto a Milano qualche anno fa. Ero entrata nel bar del quartiere dove vivevo per un caffè, ero in piedi al bancone col mio cagnolino che ripuliva il pavimento di ogni briciola e a un certo punto è entrata una signora evidentemente provata, che ha chiesto di potere pagare un caffè con 50 euro. La barista l’ha guardata male e le ha detto di no, che nemmeno poteva uscire a cambiarglieli perché di turno era da sola.
La signora ha avuto una reazione di sconfitta, come se le stessero negando qualcosa di estremamente necessario. Era lì con la sua banconota da 50 euro in mano e la sua testa ha ceduto.
Senza riflettere ho detto alla barista: “Lo pago io il caffè della signora, glielo faccia”.
Ho sentito un silenzio tombale improvviso – e a zittire Milano ci è riuscita soltanto la pandemia – la barista mi guardava sconvolta, come se mi fossi offerta di fare qualcosa di illecito. Gli altri clienti si sono bloccati con la tazzina a mezz’aria e si sono voltati tutti a guardarmi.
La signora ha sussurrato un “No…”, che non so cosa significasse per lei ma non importa.
“Sì signora, ha bisogno di un caffè, glielo offro io”, le avevo detto.
Lei si è commossa, ha trattenuto le lacrime ma erano lì che brillavano mentre mi guardava con gratitudine.
“Non so come fare per sdebitarmi, non la conosco”, mi aveva risposto.
“Non deve, è soltanto un caffè. E non le sto facendo un favore per avere qualcosa indietro.”
“No, non è soltanto un caffè”, mi aveva risposto, per poi ringraziarmi con parole molto sentite, con intorno l’imbarazzo generale delle persone presenti e della barista.
Mezz’ora dopo ero entrata nello studio della mia psicoterapeuta, mi ero seduta ed ero esplosa in lacrime, un pianto lungo, di quelli con le mani che ti sorreggono la testa.
Ero rimasta sconvolta dalla reazione delle persone, dalla barista, dalla freddezza delle loro espressioni, dal modo in cui mi guardavano pensando “Ma questa è scema? Cazzi suoi se la signora non ha un euro per pagare”.
Si trattava soltanto di un euro.
Si trattava soltanto di un caffè, era tutto ciò di cui quella signora aveva bisogno in quel momento.
Su quella poltrona, tra i singhiozzi, chiedevo alla mia psicoterapeuta: “Com’è possibile che un semplice gesto di sostegno venga interpretato come follia? Com’è possibile che il minimo supporto nei confronti di uno sconosciuto non sia ritenuto una responsabilità personale, seppur minima. Com’è possibile che un semplice gesto di aiuto venga visto come un miracolo?
Com’è possibile essere arrivati a tanto?”
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