Tre operai in pensione. Tre uomini anziani, ma non troppo, con mogli, nipotini e figli che non li comprendono. Sullo sfondo Torino, il quartiere di Mirafiori e lei, soprattutto: la fabbrica. Si chiami FIAT, cioè quella per antonomasia sotto la Mole e in Italia, o comunque tutti gli stabilimenti dell’indotto. Franco (Alessandro Haber), Delfino (Antonio Catania) e Carlo (Giorgio Colangeli) assemblavano le FIAT 131, erano operai torinesi che vivevano in simbiosi, con il lavoro in catena di montaggio, nella fabbrica che era “castello delle favole” (dice Carlo al nipotino) e vampiro di energie, croce e delizia della propria esistenza. Ormai sono in pensione, ma non riescono a non tornare col pensiero, e con il corpo, al luogo della loro vita lavorativa. E così lo occupano (in tre!!!), diventando un piccolo caso mediatico nel quartiere.
Esordio alla regia di Stefano Di Polito (che compare in un cameo, nel ruolo di un giostraio gitano), con uno spunto narrativo molto interessante, che mescola la memoria e il presente, la nostalgia del passato e il presente post-industriale. Intersecando immagini di repertorio (che arrivano dal film di Scola “Trevico-Torino”), al racconto di fiction dei tre ex operai, calibrando il cuore del ragionamento sullo spaesamento dei tre protagonisti (e di un quartiere intero, probabilmente), che non riescono a rassegnarsi a una società cambiata, con rapporti di forza diversi, valori perduti (l’incomprensione coi figli), che inseguono fantasmi del passato, che ormai hanno solo le sembianze scheletriche dei capannoni abbandonati.
Commedia agrodolce (piccole apparizioni per Mimmo Calopresti, che produce anche il film e Lorenzo Ventavoli), che non riesce purtroppo a trovare l’amalgama perfetta: a testimonianza, probabilmente, di quanto sia difficile oggi raccontare quel che era la fabbrica e la vita organizzata sui suoi ritmi. Lo scarto tra generazioni rimane palese. Ho l’impressione che a quelli della mia età (tanto meno a chi è nato dopo di me) possa comunicare poco, come poco dissero, pur nel loro pregio, documentari dello scorso anno come “La zuppa del demonio” e “Togliatti(grad)”. Non abbiamo più lo stesso codice interpretativo, ci sembra fiction o tempo troppo lontano, anche se appartiene alla generazione dei nostri nonni. Paradossi di chi è nato alla fine di quel secolo, in cui l’industria era l’architrave, nel bene e nel male, di una società. Anche questo è “Mirafiori Lunapark”, il suo imbarazzo un po’ goffo, è fisiologico.
Resta una favola riuscita a metà, sospesa nel tempo e nello spazio, come lo stabilimento di Mirafiori, che diventa piccolo luogo di giochi per i bimbi del quartiere.
A molti in questa città, suonerà famigliare.
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