Ed ecco qui un articolo di Paolo Vachino: poeta e scrittore che ci propone una riflessione sull’argomento che andremo a trattare in radio mercoledì prossimo: il carcere.
Buona lettura.
Scuola e carcere. Scuola in carcere. L’accostamento di queste due entità spazio-temporali sembrerebbe un paradosso, o quantomeno una contraddizione. E invece il binomio rappresenta un tassello importante del grande mosaico delle civiltà democratiche, tra cui annoverare – seppur zoppicante – anche la nostra società italiana. L’argomento meriterebbe una trattazione vasta e articolata, per mettere in evidenza la drammatica – quanto sfaccettata (e – per certi versi – sfacciata) – situazione delle carceri italiane. Ma anziché optare per l’analisi del bicchiere mezzo vuoto, preferisco raccontare un’esperienza concreta e sicuramente felice, ascrivibile senza dubbio all’altra metà. Quella (mezza) piena. Come piena di entusiasmo e d’iniziative è una parte – crescente – della nostra società, che non si crogiola nella rassegnazione che antecede una catastrofe, peraltro sempre annunciata e fortunatamente non ancora comparsa – o almeno non del tutto -, ma che agisce e lotta nella preparazione – non di un futuro – ma di un presente migliore.
Il carcere è un recinto chiuso, avente funzione di arca di contenimento di coloro che sono stati condannati da un Tribunale a una reclusione per scontare la pena inflitta, come vedremo, più o meno lunga, o addirittura, in non pochi numerosi casi, a scontare un fine pena mai, all’interno del quale, i dimoranti, vengono collocati in celle. La scienza etimologica indaga non solo la biografia delle parole ma stimola una riflessione sul senso profondo del significato delle relazioni umane, all’interno delle quali le relazioni verbali ne costituiscono ombra e specchio. Per cui non occorrono sofisticate competenze linguistiche per comprendere l’affinità etimologica tra cella e cellula. Anche se cellula in origine è un diminutivo di cella: stanza, camera; diventata poi quella parte di tessuto organico considerato il primo elemento dell’organismo. E se la società è allegoricamente un grande organismo vitale, la cella/cellula ne costituisce il suo primo elemento. A giudicare dalle condizioni in cui versano le carceri italiane è agevole intuire che la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica ritiene quelle celle/cellule come un’infetta massa tumorale da rimuovere, se non fisicamente almeno mentalmente dall’orizzonte della cosa pubblica.
La Cooperativa L’Officina Onlus, ideata da Alberto Ramundo, Giorgio Roselli e Gulietta Cardellini, dalla quale sono stato – volontariamente – arruolato, la pensa esattamente al contrario. E così da anni ha avviato un articolato progetto all’interno della Casa Circondariale di Pesaro e del carcere di massima sicurezza di Fossombrone. In entrambe le strutture si è dato vita a un’officina della parola scritta, anzi, un laboratorio ‘officinale’ di scrittura creativa, meglio ancora – un vero e proprio ambulatorio poetico – avente proprio la finalità di riscoprire l’elemento terapeutico emanato dalle parole scritte sopra un foglio di carta. Pur nell’angustia d’improvvisate aule ricreative, si tenta di portare un pezzo di scuola, nella sua primitiva e primigenia funzione: quella di ozio, riposo, agio. Il benessere di ritrovare uno spazio della quiete interiore, e trasformarla nel calamaio di un’esperienza, in cui intingere la penna per raccontare la propria storia. Nel carcere di Pesaro – dopo anni di esperienza nella sola sezione femminile – si è avviato d un laboratorio promiscuo, in cui carcerate e carcerati si ritrovano in una grande stanza per praticare tutti insieme un rituale di scrittura, intesa come una “commensabilità dello spirito”. È stupefacente assistere all’abbandono spontaneo e immediato alla scrittura. Con la stessa agilità ed energia contraddistinguenti l’oralità.
A eccezione di qualche raro caso di analfabetismo, o di una lingua pseudo inventata, un gramelot di scrittura mescolante idiomi e lingue tra le più disparate, la lingua italiana viene maneggiata a un livello sbalorditivo. Si sente veramente crepitare la letteratura. Quella che discende dalle lettere. Spedite a un indirizzo preciso, o abbandonate al destino fluttuante – e quasi sempre naufragoso – di una bottiglia. Lettere per ritrovare un destinatario immaginario, un destino immaginato, un tu elettivo che funge da esempio, da modello, da mito cui attingere per uscire dal precariato affettivo e claustrale della detenzione. Si scrive senza pensare a uno stile, a una (bella) forma. Il contenuto è tutto. Parole che non vogliono solo traghettare senso o immagini, sensualità o immaginazione, ma rappresentare funi cui aggrapparsi per affrancarsi dall’ombra gaia delle sbarre, tracciata su fronti e sguardi privati di orizzonti immediati. Nel corso di un laboratorio, una zingara analfabeta ha dettato una storia, dettata dentro di lei dalla condizione di appartenenza a un popolo nomade per eccellenza, che sono costretto a riassumere per ragioni di spazio tipografico, più che di tempo calligrafico.
Una lettera d’amore e di desiderio. Questa.
Dall’età di sei anni desiderava ardentemente ricevere in regalo una bambola – una Barbie – la sciantosa bambola di plastica di origine statunitense. Dopo anni di suppliche e di vane promesse, un suo zio gliene porta finalmente una in regalo: ma anziché recarle gioia – una volta scartato il pacco, ha generato una colossale delusione. La Barbie era alta, bionda, magra, con minigonna e tacchi alti. Non era zingara. Così la bambina, nel giro di pochi giorni, ha deciso di trasformarla, di donarle una nuova identità di appartenenza alla sua comunità: tingendogli i capelli con l’henné, confenzionandole una lunga gonna con le stoffe dei vestiti di sua madre, dopo aver provveduto a romperle i tacchi per sostituirli con dei mini sandali di cuoio. La magia che solo i bambini ancora praticano in una società che ha dimenticato la potenza apotropaica del mondo soprannaturale. Nel momento della dettatura della lettera ad Alberto c’era un silenzio veramente elettrico e scolastico, nel senso profondo dell’agio e del riposo. Per un attimo tutte le detenute – e noi compresi – eravamo partecipi di un evento che non era solo narrazione: era teatro, era rito religioso, era una danza funambolica sul filo della memoria, era apertura all’intimo. Ed è proprio vero che “dall’infimo succede il gigantesco”, come scrive Erri De Luca: “da coriandolo di neve a valanga”. E così le parole sono cominciate a sgorgare fluide e inarginabili anche dalle penne delle altre detenute, avviate al ricordo e alla voglia di tradurlo in una testimonianza scritta di verità.
L’altra esperienza straordinaria è quella che si svolge nella Sezione di Levante del carcere di Fossombrone, in cui i detenuti partecipanti al laboratorio di scrittura sono quasi tutti ergastolani, e – i pochissimi restanti – comunque di lunghissimo corso. Per raggiungere l’aula in cui avviene l’incontro, si varcano tredici porte e cancelli di sbarramento blindato. Ogni porta è l’allegoria del punto a capo nella scrittura. Si precipita, dopo una pausa, in un altro spazio di senso. Si passa dal mastodontico organismo sociale alla microbicità di una cella/cellula base, non di partenza, ma di arrivo finale. L’ergastolo è una delle espressioni più feroci e crudeli espresse dalla democrazia che solo noi crediamo essere tanto illuminata. Ma i volti e i corpi dei detenuti non sono rassegnati. Vivono in un mondo ristretto di spazi fisici ma non di quelli mentali. Perché i detenuti sono delle spugne: assorbono ogni cosa che profumi di libertà. Insieme a loro abbiamo scritto una grande storia, nella quale il protagonista è un vagabondo che proviene da un’altra galassia, ed è dotato di un conoscitore di parole universali. Così, un poco alla volta, comprende il significato di molti vocaboli sconosciuti. Entra in un altro mondo, e precisamente in un sottosuolo dimenticato dai più. Il vagabondo entra ed esce dalle celle, per incontrare le storie narrate – nel corso di un anno d’incontri – da ogni singolo detenuto. La scrittura ha svelato che all’interno delle storie c’erano annidate anche parole che sono pura poesia. Parole di una potenza inaudita, come queste: “Voglio portarti nella vita per sempre / come il violino porta la musica”.
Oppure quelle di un altro detenuto: “le tue carezze / sono piombo fuso / piantato nella fronte / che mi trapassa / come una lama”. È una dichiarazione d’amore alla moglie, in cui la carezza è comparata a qualcosa di estremamente violento, ma che in questo caso traduce la forza e la potenza di un amore assoluto. Una persona cresciuta in ambienti di disagio causato dall’efferatezza delle condotte, che non indulgono mai alla tenerezza ma tendono alla naturale ferocia animale, è dotata di un immaginario corrispondente alle esperienze vissute.
Allora, se è vero che esiste uno stretto apparentamento tra la carne e la parola, lavorare sulle parole in carcere significa (anche) provare a disinnescare la miccia lunga di una violenza a orologeria, di cui nessuno si è mai occupato prima. In carcere, la finalità non è quella di insegnare una scrittura creativa, ma di praticare una creazione scritta. Creare che diventa – inevitabilmente – agire. Un’azione sulle parole che devono ri-scrivere un’esperienza, suggerire l’ascolto di una voce nuova, svincolata dalle leggi inflessibili dell’immagine che gli altri hanno di noi e dal rispetto di un codice d’onore fossilizzato da secoli. L’aula del carcere, nonostante i portoni di metallo, e le sbarre delle celle, diventa un’agorà – la piazza principale della polis – in cui scrivere diventa un gesto politico, uno spazio miniaturizzato di democrazia planetaria. Diventa il luogo del confronto che non decade mai in affronto. Luogo di ascolto e mai di prevaricazione.
La scrittura come filo per ricucire un’identità doppiamente ferita – da dentro e da fuori. E la scrittura non può prescindere dalla lettura, come testimoniano questi versi straordinari di un ergastolano, detenuto in carcere da quasi quarant’anni:
“LA NOTTE
La notte è una lunga via di silenzio.
Non si ascoltano notizie,
si ascoltano i passi del contatore umano.
Uno, due, tre tanti corpi da controllare …
respirano… forse!
Sono di spalle quando vengo sommato agli altri,
sono uno e moltitudine.
Sono uno perché solo in cella
moltitudine perché in compagnia
di libertà di carta chiamata libri,
che a quel controllore sfugge.
Sfugge perché inanimata
seppur vestita di un’anima
che mi regala libertà
non contemplata nella mia pena”.
Ogni commento sarebbe uno spreco e un’offesa verso parole che dicono tutto. A tutti.
La scuola che entra nel carcere è un doppio ponte: quello tra l’organismo sociale e la cella/cellula, perché la società, come la famosa catena cheguevariana, “non può essere più robusta del suo anello più fragile”; e quello tra il detenuto e la sua coscienza, la sua storia di uomo e/o di donna. Una detenuta nigeriana ha scritto: “In Italia la povertà è un reato”. Chi ha tempo di riflettere, nelle lunghe giornate dietro le sbarre, induce inevitabilmente noi a riflettere sull’umanità, che sembra in questo terzo millennio occidentale usufruire della libertà soltanto per dichiararsi libera da ogni impegno. Mentre abbiamo scoperto nel luogo di massima privazione della libertà che esiste una libertà non contemplata nella pena.
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