sul pont neuf ho incontrato…
senza cane nè bastone nè cartello..
pietà per il disperato
davanti a cui la folla si scosta.
Ci sono pochi luoghi in cui l’indifferenza regna strisciante ed astuta come in una stazione ferroviaria; aeroporti, terminal di autobus, porti..tutti luoghi di passaggio, sì, ma in stazione é diverso. Perlomeno io ho notato questo.
A volte mi capita di dover tornare a casa in treno; succede quando faccio particolarmente tardi a lavoro. Non possiedo un abbonamento, quindi ogni volta acquisto il biglietto.
Ieri l’altro tutte le biglietterie automatiche erano fuori uso, quindi sono andato dal tabaccaio interno della stazione e mi sono messo pazientemente in coda; che si fa in coda? Si guardano gli smartphone o ci si guarda intorno: ero reduce da nove ore filate di monitor, quindi ciaociao smartphone.
L’ho visto in un cantuccio di cui ignoravo l’esistenza all’interno del negozio: una specie di sgabuzzino adibito a sala slot. Era lì, a poco più di un metro, e infilava monetine in una di quelle macchinette, schiacciava un tasto, poi un altro, aspettava e dopo un suono che immagino stabilisse la fine della partita rimetteva un’altra monetina. Una scena che si vede spesso, ma ero in coda, non avevo altro da guardare e poi ho visto quello che mi ha spinto a pensarci tutta la sera. L’ho visto e poi l’ho guardato, perché piangeva.
Non era di schiena, perché la slot era parallela alla coda che stavo facendo, quindi potevo vederlo di profilo: non singhiozzava, non aveva un’espressione infelice, era ben vestito e in generale dava l’impressione di essere una persona perfettamente inegrata nel sistema. Non mi sarei mai accorto che piangeva se i colori baluginanti dello schermo non avessero rimbalzato contro le lacrime.
Ho provato una pietà naturale e asettica per quell’uomo, ho distolto lo sguardo, comprato il mio biglietto e una volta salito sul mio treno ho fatto una telefonata che avrei certamente potuto fare l’indomani, illudendomi così di cacciare quella visione nel miscuglio delle tante cose da dimenticare.
Ormai però, manco a dirlo, ce l’avevo dentro, attaccato, si espandeva generando domande difficili; non su di lui, su di me: cosa avrei dovuto fare? Cosa avrei potuto fare? Perchè non ho potuto fare altro che distogliere lo sguardo e proseguire? E soprattutto: chi sono per credere che quell’uomo andasse aiutato?
Ho partecipato ad almeno un paio di seminari sulla ludopatia, ho lavorato in passato per un’associazione che se ne occupa mettendo in campo forze ed intelligenze notevoli, ma lì, in quel momento, lui era solo. Possiamo metterla come vogliamo, possiamo fare campagne di sensibilizzazione, studi, seminari, workshop; possiamo andare nelle scuole, distribuire volantini, produrre clip e spot favolosi per la tv. Lui lì era solo, e non c’era nessuno che potesse [o volesse, o addirittura ritenesse opportuno] fare qualcosa. Nemmeno io. Non c’ero nemmeno io, che ero stanco, sentivo il fastidio del colletto della camicia e volevo solo una cosa: casa mia.
Non sono riuscito a dare una risposta decente a domande che forse ho posto male ma che comunque erano lì. E sono lì ancora adesso.
Ponendomele mi sono messo in gioco io, e almeno quella sera ho perso. E mi dispiace.
P.S. Non volevo scriverne e renderlo pubblico, ma una discussione su Facebook di qualche sera fa mi ha spinto a farlo. E’ l’indifferenza che ci fotterà tutti, e io non voglio rendermi complice. Non del tutto, almeno.
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