Questo articolo è di Michael Huemer [professore di filosofia alla University of Colorado, Boulder.]Questo articolo è uscito sul giornale online Cato Unbound ed è stato tradotto per Internazionale.

Non siamo soliti postare contenuti non originali, ma questo è davvero da leggere. [Non è detto che non possa riaccadere: dipende se ne vale la pena]


A volte mi chiedo se gli esseri umani abbiano una coscienza – la capacità di giudicare in modo indipendente e di essere motivati da verità morali – o se invece la loro sia solo una disposizione istintiva a conformarsi alle convenzioni sociali e alle esigenze del più forte. Quasi tutti i comportamenti apparentemente etici possono essere spiegati da questo conformismo: è possibile, cioè, che la maggior parte delle persone eviti di rubare, stuprare e uccidere il prossimo semplicemente perché si tratta di comportamenti contrari alle convenzioni della nostra società e agli ordini di chi ci governa. Questo non implica una vera e propria coscienza.
Il criterio per stabilire se qualcuno ha una coscienza o no potrebbe essere la sua capacità di riconoscere l’esistenza di determinate considerazioni morali e agire in base a queste considerazioni anche quando si discostano dalle convenzioni sociali, dalle leggi o dai dettami dei potenti. La maggior parte degli esseri umani, secondo la mia lettura, fallisce miseramente questa prova.
Per esempio, sappiamo dai famosi esperimenti sull’obbedienza di Stanley Milgram che due persone su tre sono disposte a colpire con una scarica elettrica un innocente se a ordinarglielo è un uomo in camice bianco. La storia c’insegna che un numero enorme di persone può essere indotto a partecipare a un genocidio dal proprio governo. Nella società di oggi, la maggior parte dei cittadini non è turbata da una serie di azioni dei governanti che c’indignerebbero se compiute da chi non ha potere politico: se qualcuno sottrae denaro ai suoi vicini per finanziare la propria organizzazione di beneficenza è un ladro e un estorsore; se lo fa il governo, sta semplicemente applicando la politica fiscale. Se qualcuno uccide un numero enorme di persone per provocare un cambiamento politico è un terrorista senza scrupoli; la stessa cosa messa in atto dal gruppo dominante della nostra società è una normale operazione militare. Sono tutti esempi ben noti ai libertari, che considerano la libertà come il massimo valore della vita individuale, sociale e politica, e possono facilmente capirli.
C’è però un esempio di fallimento della coscienza ancora più lampante che molti, anche tra i libertari, non riescono a vedere. Parlo del trattamento che riserviamo a chi fa parte di altre specie. Le crudeltà più spregevoli, che ci farebbero orrore se perpetrate ai danni di qualsiasi essere umano, difficilmente ci turbano se riguardano un’altra specie.
Quasi tutta la carne e gli altri prodotti di derivazione animale sono messi sul mercato da fattorie industriali, dove si trovano condizioni che non esiteremmo a definire “tortura” se a subirle fossero degli esseri umani. In tutto il mondo, 74 miliardi di animali – quasi dieci volte l’intera popolazione umana – vengono macellati ogni anno per il nostro piacere gastronomico. Probabilmente dieci anni di allevamento industriale provocano più dolore e sofferenza di tutto il dolore e la sofferenza provati dall’umanità nel corso della storia. Se il dolore delle altre specie è anche solo un po’ una cattiveria, allora la sua quantità ne fa uno dei problemi più gravi del mondo.
Molti esseri umani, però, non vedono nulla di sbagliato in tutto questo e – anche se conoscono la situazione – non proveranno alcun rimorso addentando il loro prossimo hamburger. Molti ammetteranno che comprare prodotti agricoli industriali è sbagliato, ma difficilmente si sentiranno motivati a modificare i loro comportamenti. Perché? La mia ipotesi è che la stragrande maggioranza degli esseri umani evita i torti morali solo quando questi torti sono socialmente disapprovati o sono in conflitto con quello che vogliono i potenti.
Forse sto correndo troppo. Prima dovrei spiegare perché il trattamento delle altre specie animali è una questione che interessa la morale. Qui cercherò di rispondere molto brevemente a due domande: gli animali sono soggetti morali? Che doveri abbiamo verso di loro?
Quello che intendo con la prima domanda è grosso modo questo: gli animali hanno esperienze che possiamo considerare intrinsecamente belle o brutte (cioè con un valore o un disvalore di per sé, e non in quanto strumenti di qualcos’altro)? La risposta è sì: animali come mucche, maiali e galline possono provare piacere o sofferenza. Il piacere è intrinsecamente un bene; la sofferenza è intrinsecamente un male. Quindi sì, alcuni animali sono soggetti a esperienze intrinsecamente belle o brutte.
Come facciamo a sapere che alcuni animali provano piacere o sofferenza? Primo, hanno strutture fisiologiche simili a quelle attraverso cui il piacere o la sofferenza si manifestano nell’uomo. Secondo, in circostanze che in noi provocherebbero piacere o sofferenza si comportano come se provassero piacere o sofferenza. I maiali, per esempio, hanno il nostro stesso tipo di recettori del dolore e quando sono accoltellati gridano di dolore e cercano di scappare, proprio come faremmo noi.
Come facciamo a sapere che il dolore e la sofferenza sono un male? Penso sia evidente. Se qualcuno non vede niente di male nella sofferenza, non so come potrei spiegarglielo. Se qualcuno vede il male solo nella propria sofferenza, vuol dire che non ha una coscienza e, anche in questo caso, credo che qualsiasi cosa io dica non possa cambiare la situazione. Se vede il male nella propria sofferenza e in quella dei suoi simili ma non in quella di altre specie, allora vorrei che mi spiegasse perché la sofferenza sarebbe un male solo quando a provarla è uno della sua specie. Di certo questo non può essere considerato un assioma fondamentale, servono necessariamente dei chiarimenti.
La risposta più comune è “l’intelligenza”. Il dolore conta solo se sei intelligente. Gli animali sono stupidi, quindi il loro dolore e la loro sofferenza non sono un male.
Si tratta di una risposta arbitraria, come l’affermazione secondo cui il dolore conta solo se chi lo prova ha la pelle chiara o è nato in America o conosce il teorema di Pitagora. Implica anche che il dolore e la sofferenza dei neonati e delle persone con disabilità intellettive non contino. Questo ci autorizzerebbe a torturare i bambini e i disabili mentali se noi – gli intelligenti – dovessimo trarne anche un piccolo beneficio. È palesemente assurdo. Se lo sforzo di difendere lo status quo ci portasse a giustificare la tortura sui bambini, e se tutto ciò ci sembrasse normale, allora dovremmo chiederci se siamo in grado di capire dei concetti morali.
Per essere chiari, non sto dicendo che il non essere d’accordo con me dimostri una mancanza di concetti morali. No, sto dicendo solo che l’incapacità di condividere i giudizi morali più paradigmatici, meno controversi, per esempio che è sbagliato torturare i bambini per divertimento, indica una mancanza di coscienza. Pretendere di spiegare perché non bisogna torturare i bambini è assurdo.
Alcuni sostengono che la caratteristica rilevante non è la nostra intelligenza, ma l’intelligenza della nostra specie. Il mio dolore conta se e solo se la mia specie è intelligente, indipendentemente dal fatto che io sia intelligente. In questo modo si evita l’assurdità di giustificare la tortura sui bambini, al prezzo però di portare l’arbitrarietà a un punto ancora più estremo. Già non è chiaro cosa c’entri l’intelligenza con il fatto che il dolore possa essere considerato un male o no. Ora dovremmo addirittura ritenere che le caratteristiche fondamentali che rendono le mie esperienze intrinsecamente buone o cattive non riguardino me o le mie esperienze. Sarebbe una posizione alquanto strana per chi, in altri contesti, insiste sulla centralità dell’individuo e sull’irrilevanza morale di classificazioni di gruppo che non sono state scelte.
Altre teorie sono altrettanto arbitrarie. Alcuni sostengono che solo gli umani possiedono la facoltà della ragione o la capacità di afferrare entità astratte o universali. Chi ha inclinazioni religiose, da parte sua, sosterrà che solo noi umani possediamo l’immortalità dell’anima e solo noi raggiungeremo dio nell’aldilà. Tutto ciò, anche se fosse vero, è chiaramente irrilevante. In che modo la capacità di afferrare concetti astratti o di raggiungere l’aldilà sarebbe legata al fatto che la sofferenza è un male? Se fossero veri il nominalismo o l’ateismo, forse che la tortura diventerebbe accettabile? Chi difende le crudeltà verso gli animali in genere non fa nessuno sforzo per rispondere a queste domande. È come se cercasse semplicemente di appigliarsi a una caratteristica qualsiasi che distingua la sua specie dalle altre – che sia moralmente rilevante o no – per poi sostenere che, in virtù di un assioma inspiegabile e di per sé evidente, il dolore conta soltanto per chi possiede quella caratteristica. In ultima istanza, si appelleranno direttamente all’appartenenza alla specie come caratteristica cruciale. Secondo me questo è esattamente quello che intendo per pregiudizio radicato.
Se la crudeltà verso gli animali è un problema, cosa dovremmo fare per affrontarlo? Non saprei fare un elenco completo dei nostri doveri, né verso gli animali né verso gli altri esseri umani. So però qualcosa dei nostri doveri; so qual è il minimo indispensabile che dovremmo fare: dovremmo astenerci dall’infliggere enormi dolori e sofferenze ad altre creature per trarne piaceri gastronomici relativamente modesti. Si tratta di un’applicazione particolare del principio generale secondo cui non bisognerebbe causare eventi terribili al fine di ottenere piccoli benefici per se stessi. Non è un principio sottile o complicato: è il nucleo fondamentale della morale. Se non lo accettiamo, non so perché dovremmo accettare qualsiasi altro principio morale.
Dovremmo evitare non solo di torturare direttamente altre creature, ma anche di pagare altre persone per infliggere queste torture. Non si sfugge alla responsabilità di un torto appaltandolo ad altri. Se, per esempio, il presidente incarica dei soldati di torturare dei sospetti terroristi, il presidente è responsabile delle torture almeno quanto quei soldati. Né si sottrarrebbe alle sue responsabilità se dicesse genericamente ai militari di “ricavare alcune informazioni” dai sospetti, anche quando sa che cercheranno di estorcergliele con la tortura. Il punto è che non è giusto pagare qualcun altro per un prodotto quando sappiamo benissimo che è il frutto di un comportamento estremamente sbagliato e che chi lo produce continuerà a comportarsi così finché sarà pagato. Perciò, come minimo, una persona con una coscienza dovrebbe astenersi dal comprare prodotti che provengono da fattorie industriali.
Può darsi che i nostri doveri siano ancora più stringenti, sia verso le persone sia verso gli animali. Forse non dovremmo comprare prodotti di origine animale nemmeno dalle fattorie più “umane”. Forse dovremmo denunciare apertamente la crudeltà e altri gravi torti. Non mi concentrerò su questi doveri ora perché lo spazio è limitato e perché penso sia importante affrontare il comportamento più palesemente sbagliato che quasi tutti compiono ogni giorno, spesso non rendendosi conto di quanto sia sbagliato. Con questo obiettivo in mente, citerò alcune questioni.
La prima: un animale ha lo stesso tipo di diritti di un essere umano? È una domanda intellettualmente interessante, ma non è la migliore su cui concentrarsi ora, per una serie di motivi. Uno di questi è che, in generale, affrontare adeguatamente l’argomento dei diritti richiede discussioni teoriche lunghe e impegnative. Un altro motivo è che, anche dopo discussioni così lunghe e impegnative, quasi nessuno converrà sulle conclusioni. Lo so perché sono un grande esperto di discussioni tra libertari e filosofi (il problema è anche che molti libertari e filosofi si fidano troppo delle generalizzazioni astratte, si aggrappano con certezza dogmatica alla prima speculazione vagamente plausibile che gli viene in mente, quindi scartano qualsiasi proposizione successiva per quanto ovvia, ma sto divagando).
Un ultimo motivo è che, fortunatamente, le più grandi questioni pratiche possono essere risolte senza chiamare in causa i diritti: possiamo constatare che il dolore e la sofferenza sono un male e che non si dovrebbe fare il male al solo scopo di ottenere benefici relativamente piccoli per se stessi. Questi elementi sono sufficienti per rendersi conto che il comportamento della stragrande maggioranza delle persone è moralmente sbagliato.
La seconda: quale dovrebbe essere la politica dei governi in materia di trattamento degli animali? Ma anche questa domanda, per quanto intellettualmente interessante, non è quella su cui concentrare la nostra attenzione. Anche qui, un’esposizione adeguata richiederebbe una discussione di filosofia politica lunga e impegnativa, che non porterebbe a nessun accordo. E anche in questo caso la domanda più importante per noi come individui – cosa dovremmo fare in prima persona? – può essere affrontata prescindendo da questioni di interesse pubblico.
La terza: le posizioni più estreme in materia di diritti degli animali sono difendibili? Su questo tema come su altri, molti hanno la forte tentazione di concentrarsi sugli avversari intellettuali più estremi. Ma l’approccio razionale invece è concentrarsi sulle posizioni contrarie alla propria che sono più ragionevoli e a cui è più difficile rispondere.
Per esempio, per sostenere che la maggior parte delle persone agisce ogni giorno in modo profondamente sbagliato non è necessario sostenere che gli animali hanno i nostri stessi diritti né che i loro interessi contano esattamente quanto i nostri. Se le sofferenze degli animali contassero anche solo un millesimo delle sofferenze umane (qualitativamente simili), l’agricoltura industriale sarebbe comunque uno dei problemi più gravi al mondo (se 74 milioni di persone fossero torturate ogni anno in condizioni simili a quelle di una fattoria, sicuramente il problema sarebbe considerato tra i più gravi al mondo). Dunque un interlocutore che non fosse d’accordo con la mia tesi centrale dovrebbe provare a spiegare perché le sofferenze degli animali non contano nemmeno un millesimo di quelle qualitativamente simili dell’uomo.
Sono un libertario convinto. Tuttavia la mia prima responsabilità non è verso il libertarismo (e non dovrebbe esserlo nemmeno quella degli altri libertari o la vostra). La mia prima responsabilità, come essere umano, è verso il bene e il diritto. Le altre specie senzienti sulla Terra forse non hanno gli stessi diritti di libertà degli esseri umani (la questione è oggetto di dibattito), quindi il trattamento etico di queste creature può non essere affrontato in modo specifico dalla nostra ideologia politica. Forse il loro maltrattamento esula dal perimetro di ciò che la nostra società condanna o punisce.
Ma è certamente possibile trattare questi esseri viventi in modo sbagliato. E quando i torti si verificano su vasta scala, una scala tale da far impallidire qualsiasi sofferenza della nostra specie, dovrebbero generare preoccupazione in tutti gli esseri razionali, libertari e no.Probabilmente dieci anni di allevamento industriale provocano più dolore e sofferenza di tutto il dolore e la sofferenza provati dall’umanità nel corso della storia.

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