C’è stato un tempo in cui giocavo a baseball. Lo facevo in una squadra talmente pittoresca che per due intere stagioni siamo stati gli zimbelli della serie C regionale. In uno sport assolutamente con poco o nulla a che fare con l’Italia, ho vissuto l’esperienza dei Peanuts di Charlie Brown in prima persona. Ricordo bene quei due anni : ero giovane, ma la squadra era un agglomerato generazionale. Si andava senza troppi sofismi dai 16 ai 50 anni, forse anche qualcosa in più.
Perdevamo sempre. Di tanto pure, ma ci divertivamo e andava bene così.
Piero, anfitrione dalla grande umanità, era solito consolarci spiegandoci che stavamo facendo qualcosa di epico, come i bombi, gli insetti che per la fisica sarebbero troppo pesanti per poter volare. Ma lo fanno. “Siamo come loro, giochiamo a baseball, ci piace farlo. Non sappiamo che è impossibile ma lo facciamo con naturalezza”.
Quella similitudine mi accompagna da allora in ogni cosa difficile della mia vita: l’ultima in ordine di tempo è stata la corsa. Ho iniziato lentamente nei primi mesi del 2015. Stanno per chiudersi i primi 3 anni. Fatti di alti (due mezze maratone concluse) e bassi (gli ultimi sei mesi di poco o nulla). Alla faccia di Murakami, correre è difficile, impegnativo. E col corpo che mi ritrovo non smettere per due ore è un’impresa. Ora lo è persino mezz’ora, perché appena rallenti, per infortunio o altro, con 40 e rotti anni (rotti perché gli acciacchi ti rompono per davvero) diventa tutto hard. Vorrei smettere, fare quello che si rassegna all’età. Mi viene in mente di farlo, sono ad un passo.
Poi penso ai bombi: tra poco uscirò dall’ufficio, mi infilerò le scarpette e comincerò una nuova avventura. Obiettivo: la maratona.
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