New York, la città che non dorme mai, come cantava Frank Sinatra. Quanto è vero. Mai, nella mia limitata esperienza di viaggiatore, mi ero trovato in un simile calderone straniante. Che poi a pensarci bene ho esplorato, quasi sempre a piedi, Manhattan e poco altro.
Proviamo a usare i sensi per dipingere il quadro, in primis l’udito: cantieri perenni, rumori di ristrutturazioni e lavori in corso, anche nel cuore della notte, sirene di polizia o vigili del fuoco e ambulanze, clacson nel traffico (folle, altro che Palermo, direbbe Benigni!) a tutte le ore. E anche i motori, notte e giorno, che servono a tenere accesi frigoriferi e piastre di ambulanti che vendono hot dog, panini, gelati e simili. Non c’è pace o silenzio, forse nemmeno del tutto a Central Park, polmone verde di una Manhattan che rinasce nel jogging dei salutisti, nei pranzi al volo sulle panchine, nelle comitive di ragazzini e nei turisti che si aggirano nel verde, mentre i newyorkesi incuranti del mondo prendono il sole, dormono, leggono libri, si improvvisano suonatori di violino o sax, e qualche turista giapponese ondeggia su una barchetta a remi nel cuore di uno dei laghi del parco.
L’olfatto, in seconda battuta: ovunque odori e profumi, quelli fastidiosi di smog e nuvole di fumo che si alzano all’improvviso, quelli gastronomici che ti stordiscono agli incroci prodotti da baracchini di panini e cibo etnico con spezie orientali, da luoghi che lasciano trapelare aromi di carne alla griglia ad ogni angolo.
La vista è ingannata, per diverse ragioni. Per gli scintillanti maxischermi pubblicitari di Times Square, abbaglianti soprattutto la notte, dove nugoli di turisti si riversano come falene attirate dalla luce. Già, la luce, quella solare almeno, è filtrata dalle sagome dei grattacieli, in una città che tutto può dirsi meno che piatta, nella sua estensione verticale. Ci ho messo un po’ a capirlo, nel realizzare quanto si percepisca tardi la luce del giorno al mattino, se la tua finestra è schermata da un accerchiamento di palazzi di decine e decine di piani. O al tramonto, quando agli incroci vedi in lontananza l’imbrunire che ti è nascosto dalle masse dei grattacieli vetrati che fanno da scudo. Solo dopo esserti abituato, a questa luce in differita, capisci il colpo di genio che ebbe Sean Penn, nel raccontare il suo episodio dell’11 settembre 2001, con il magistrale vedovo di Ernest Borgnine che parla con la moglie defunta, e la mattina dell’attacco al World Trade Center finalmente coglie la luce del sole in casa, perché non ci sono più le Torri Gemelle a coprirgli la finestra.
E poi, la sensazione di vertigine e onnipotenza, ma forse anche la consapevolezza di quanto siamo piccoli, quando ti immergi in quel contesto e soprattutto se hai l’occasione di vederlo dall’alto e coglierne tutta la sua maestosa imponenza.
I marciapiedi sono larghi, la folla di gente sempre in movimento, perennemente con un grande bicchiere in mano colmo di qualche lungo caffè o cappuccino, frullato o frappè che dir si voglia. Non c’è nessuno fuori luogo, perché tutto è ammesso: che tu sia grasso o magro, straccione o elegante, turista o indigeno non importa; non c’è pettinatura, abbigliamento, colore della pelle o orientamento sessuale che contino, perché tutti hanno cittadinanza in egual misura. Puoi trovare, nello stesso angolo del pianeta, i manager in giacca e cravatta con il cestino del pranzo, come gli homeless (di qualunque età e sesso) con un cartone e un recipiente per chi offre loro denaro. E il miscuglio può mutare da una strada all’altra, cambiando quartiere anche solo per una strada, nelle vie lunghe di Harlem dove la domenica mattina senti provenire cori gospel dalle chiese, nella multietnica Chinatown che confina con Little Italy, nell’eleganza dei palazzi del Greenwich Village, nella Brooklyn rumorosa e caotica che si distacca da Manhattan con un ponte di chilometri che tanti attraversano a piedi e in bicicletta (oltre che in auto). 8 milioni e 600mila abitanti, in pratica dieci volte Torino, che convivono non si sa bene come: eppure in qualche modo l’equilibrio tiene. Quanto è strano sentirsi chiedere “How are you?” dalla cameriera di Starbucks che ti sta servendo o dall’impiegato dell’hotel che ti vede rincasare e ti sorride; quanto è curiosa l’abitudine delle mance, soprattutto nei ristoranti (chi si ricorda il dialogo iniziale ne “Le Iene” di Tarantino?), per noi che la consideriamo un’ eccezione rarissima?
Solo chi l’ha vissuta fino in fondo dalla nascita, forse può davvero capire cosa sia stato l’11 settembre 2001, che oggi riecheggia lontano nella piazza del memoriale con il nome di ciascuno dei morti di quella folle giornata. La statua della Libertà finisce per essere un’attrazione per turisti, buona per foto e selfie di gruppo, ma il museo dell’immigrazione di Ellis Isalnd restituisce tutta la dimensione di quel fenomeno, di cui anche noi italiani fummo protagonisti, oltre un secolo fa. Le fotografie, o meglio gigantografie, dei migranti che cercarono fortuna nelle Americhe parlano da sole: occhi di speranza e di miseria, in cerca di riscatto da una vita di stenti, che non siamo oggi in grado di comprendere (e forse dovremmo, paragonandoli agli sguardi dei migranti sui barconi del Mediterraneo).
I musei, le chiese, i parchi, le piazze, i monumenti, i teatri di Broadway e la sensazione di aver già visto tutto in qualche film, tutto riassume New York e niente al tempo stesso gli rende giustizia. E pure io, adesso, a ripensarci, mi rendo conto che non riesco a descriverla fino in fondo come vorrei. Forse è troppo difficile (gli americani usano l’espressione “bigger than life”), anche se siamo a nostro modo occidentali e quindi simili agli americani. Forse New York è troppo e basta, per essere capita e apprezzata fino in fondo. Ma non ti lascia indifferente, pur nelle sue macroscopiche contraddizioni e per i mille motivi di fascino, così che torni a casa con la sensazione affettuosa di nostalgia, come dopo aver visitato una città amata o un vecchio amico, che sai ti mancheranno una volta tornato indietro.
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