Joe (J. Phoenix) è un uomo taciturno, robusto e con un folto barbone. Vive con la madre anziana e malata, cui è legato da un rapporto affettuoso. Fa un lavoro particolare, potremmo dire sporco, e sa essere violento se necessario. Gli viene chiesto di cercare la figlia tredicenne di un senatore, scomparsa da casa, forse coinvolta in un giro di sfruttamento della prostituzione minorile. Trovarla non sarà difficile, almeno in apparenza, ma le conseguenze genereranno una spirale di sangue e morte.

Lynne Ramsay (“…e ora parliamo di Kevin”) scrive e dirige un film brutale (dal titolo antifrastico), con rimandi che potrebbero evocare altre pellicole (da “Taxi Driver” a “Oldboy”, passando per il cinema di Nicolas Winding Refn) e un gusto personale tutto suo, accompagnato dall’ottima colonna sonora di Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead.

Joaquin Phoenix disegna il ritratto del suo personaggio in maniera mirabile, assecondato dalla sceneggiatura: Joe rivive gli incubi di un’infanzia violenta e anche un passato nell’esercito, dove tanti fantasmi tornano a bussare, allucinazioni feroci che rendono la sua quotidianità insopportabile. Il suo corpo segnato e dolorante è la metafora e l’espiazione, forse, della sua stessa esistenza per nulla felice. C’è qualcosa di struggente nella sua vicenda di solitudine.

Premiato lo scorso anno al Festival di Cannes per la sceneggiatura e l’interpretazione maschile.

Disturba, inquieta, ma affascina anche, pur nella sua dose di violenza, anche se mai compiaciuta.

 

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